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L’apocalisse può attendere

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(di Michele Serra – repubblica.it) – Il tono di sgomento e di sfiorata apocalisse con il quale si parla del black out informatico di venerdì 19 luglio suggerisce l’idea che noi contemporanei si viva nella presunzione (infondata) che tutto debba sempre funzionare, niente rompersi. Credo che non esista scienza, o esperienza, che assecondi questa sciocca illusione. Tutto si rompe, tutto si interrompe, tutto è vulnerabile e deperibile, anche il sistema più raffinato è esposto all’errore e all’accidente.

Al vecchio Henry Ford è attribuita la determinazione a costruire automobili con meno pezzi possibile, perché “più pezzi ci sono, più aumentano le probabilità che qualcosa si rompa”. Non credo che le macchine post-fordiste, ben più complesse, non solo le auto, si rompano più facilmente di quelle che guidavo a vent’anni, quando l’istituzione sulla quale facevo più affidamento erano gli elettrauto.

Credo, però, che sia profondamente sbagliato meravigliarsi o peggio scandalizzarsi quando qualcosa, nonostante l’indubitabile progresso, si inceppa, e siamo costretti a interrompere alcune delle nostre attività. Pazienza. Fa parte delle regole del gioco.

È seccante ritrovarsi dentro uno stop di qualche ora, impossibilitati a procedere, ma dobbiamo metterlo nel conto. Peggio del breve horror vacui che può coglierci di fronte a uno schermo in tilt, c’è l’ossessione patologica di dover sempre fare qualcosa, dire qualcosa, aggiungere qualcosa, come se non ci fosse più posto per il vuoto (il santo vuoto).

Venerdì, saputo del black out, mi sono chiesto, con un certo nervosismo: e se mi si blocca il computer? Se al posto dell’Amaca domani c’è il cartello “chiuso per black out”? Beh, saremmo sopravvissuti, sia i lettori che io.


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