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Così il furore cieco travolge la speranza

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(Domenico Quirico – lastampa.it) – Val la pena mentre il vortice mediorientale, che è carne e sangue, ancor più si ingarbuglia e si è a un passo dal nuovo fronte libanese di guerra, ricordare l’irruente e incostante Solimano della “Gerusalemme” del Tasso. Lo paralizza a tratti la visione intima della tragedia in cui è irretito, ma è incapace egualmente di cedere ai suggerimenti della ragione. Quando dall’alto della torre di Davide vede l’inizio del disastro dell’esercito radunato, a Gaza! , dal re d’Egitto, come per radioscopia gli appare oltre la mischia una idea astratta: «l’aspra tragedia dello stato umano». Eppure nonostante questa lucidità e preveggenza si getta nella mischia perché la sua «è opera di furore più che di speme».

Vogliamo apporre questo verso come capovolto esergo della attuale condizione di Netanyahu e di Israele? Nei nove mesi della guerra di Gaza che ha permanenti maschere di sterminio ci sono alcuni punti fermi. Israele ha perso la guerra con Hamas, l’ha persa perché dopo il massacro del sette ottobre si è posto da solo nella condizione di non poter invertire quella insanguinata e bruciante dimostrazione di vulnerabilità. In ogni guerra, prima ancora delle tattiche e del mezzi con cui si intende combattere, ciò che è decisivo è la definizione del punto in cui si proclamerà la vittoria, in cui sarà onorevole fermarsi. È dove Netanyahu ha sbagliato, anche perché la sua biografia politica non gli dava scelta: ha annunciato e promesso che avrebbe ottenuto la ricostruzione della intangibilità, avrebbe ricucito a cannonate una deterrenza assoluta (che era peraltro da tempo più mito che realtà). Gli serviva non la sconfitta parziale di Hamas, forse realizzabile, ma il totale annientamento fisico, aritmetico, dei jihadisti palestinesi. Risultato concettualmente e praticamente impossibile quando si ha a che fare con guerriglieri mescolati a una popolazione di due milioni di civili. Per ammettere tutto questo occorreva personaggio di ben altra statura che il premier israeliano, dalla infinita peripezia storica un leader che avesse appreso la retorica nuda dei profeti.

Per cancellare il sette ottobre, l’umiliazione dell’esser stati colti di sorpresa, le immagini dei miliziani che scorrazzano e uccidono dentro Israele, gli ostaggi portati via brutalizzati e umiliati (il riapparire antico dell’ebreo come docile bestia da macello la cui negazione è la ragione di Israele) si è avviata non una offensiva di accorta contro guerriglia, ma una guerra biblica, ovvero assoluta, senza limiti, estirpatrice. A Gaza si è riproposta la furia implacabile delle guerre di Giosuè, una guerra di dio con la pratica dell’anatema, la strage di tutti i nemici prima di congedare le truppe al grido «alle tue tende, Israele! ». Da nove mesi Tzahal, frustrato, sempre più impotente nonostante le tonnellate di bombe che arano sabbia, baracche e uomini, sforna comunicati allungando le addizioni di miliziani neutralizzati, di capi e sottocapi eliminati, di’’covi’’carbonizzati. Ma non riesce ad arrivare a un punto finale. È sempre una spanna più in là. Anche gli americani in Vietnam, un altro brano di storia contemporanea da deglutire, ogni sera per i telegiornali in patria preparavano le cifre dei vietcong eliminati. Assicuravano al Presidente che secondo le statistiche i viet non potevano più esistere: Abbiamo praticamente vinto…eran cifre di fantasmi. Ad Hamas basta conservare un miliziano vivo, o che Sinwar resti imprendibile. E ogni proclama di vittoria israeliana è smentita.

Conseguenza ancor più negativa e forse irreparabile: il modo in cui è stata condotta la rappresaglia ha reso tutti motivi di discordia sullo stato ebraico, la possibilità di convivenza con i palestinesi condensati nella ipocrita formuletta “due popoli, due Stati’’, trascurabili e secondari. Hamas ha imposto con la strage una soluzione totale.

C’è un solo argomento vero su cui si ritorna sempre, quello delle origini: lo Stato di Israele è nato a torto, la sua stessa esistenza è una iniquità e un sopruso che si può correggere solo riportandolo alla inesistenza. Qualunque cosa abbia fatto o farà Israele sarà di natura ingiusta, bacato da un peccato originale, incancellabile, definito con sommaria teologia, colonialismo e imperialismo. Un giudizio non basato sulla politica ma su un fatto avvenuto, irrevocabile, quindi come il passato. Da cui consegue la certezza escatologica e politica che i palestinesi e il mondo arabo lo elimineranno come hanno espulso i crociati dalla Storia del vicino oriente. Ora si delinea per Netanyahu un secondo possibile baratro: nascondere una sconfitta cercando un altro nemico da battere, il rivale del fronte nord, il partito-esercito libanese di Hezbollah: migliaia di combattenti ben inquadrati e armati pesantemente, 150 mila razzi in grado di sfiancare con il numero il sistema di difesa israeliano e colpire le grandi città. Il pilastro del progetto iraniano del “cerchio di fuoco’’attorno allo stato ebraico. Da mesi, via via che la sabbia di Gaza seppelliva le certezze di rapida vittoria, colpire a nord, saldare i conti anche con i fedeli ascari degli aytollah, è diventata più che una tentazione, l’azzardo che può far tornare i conti, solo una questione di tempo. Anche per ragioni interne che forse pesano di più che le proteste dei parenti degli ostaggi.

Qui ci sono sessantamila cittadini israeliani fatti allontanare ad ottobre per precauzione da cittadine e villaggi sotto tiro di Hezbollah. Sono loro la quinta colonna dei guerriglieri sciiti. Esercito e governo avevano promesso che dopo pochi giorni sarebbero tornati a casa. Case e fattorie sono distrutte e la rabbia per esser dimenticati trabonda. Come i civili di Gaza, bersaglio inerme delle roche bestemmie delle cannonate, non sono loro che fanno la grande Storia, ma la grande Storia si fa purtroppo anche con loro.


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