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Gustavo Zagrebelsky: “L’Autonomia è un favore ai ricchi. Ma la Costituzione è cosa di tutti”

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Il presidente emerito della Consulta – “Premierato: ai riformatori importa solo che ci sia un’elezione diretta”

(Di Silvia Truzzi – ilfattoquotidiano.it) – La trimurti governativa – premierato, autonomia, giustizia – rischia molto: le firme per il referendum contro la legge Calderoli sono state raccolte in dieci giorni. Un tempo record, un messaggio al governo. Con Gustavo Zagrebelsky ragioniamo di un’ansia riformatrice che può trasformarsi in un boomerang per il governo.

Professore, è colpito dal numero di firme contro l’autonomia in un tempo così rapido?

Sì. Mi pare che non sia mai successo qualcosa di simile. Non è questione di schieramenti politici. È che la Costituzione travalica i partiti quando si mettono d’accordo trattandola come merce di scambio. Un pezzo a te e un altro a me. Ma la Costituzione non è “cosa loro”, è “cosa di tutti”. La sollecitudine dei cittadini nel segno di questo sentimento costituzionale fondamentale è un segnale di maturità democratica.

I difensori dell’autonomia differenziata dicono che semplicemente la loro proposta attua la Carta.

Attuare significa mettere in atto, eseguire qualcosa che già è decisa. La Costituzione non obbliga, consente, a Regioni con caratteristiche proprie di chiedere maggiori poteri in rapporto alle loro specificità. Qui è diverso. È un abuso per dividere. Tra le materie in discussione ve ne sono alcune che richiedono uniformità, soprattutto quando si tratta di diritti fondamentali come la sicurezza, la salute, o l’uguale libertà nell’istruzione e nella cultura; oppure altre, come i trasporti e i rapporti internazionali che condizionano l’economia di tutto il Paese, dunque il lavoro e l’iniziativa economica. Solo pochi anni fa, al tempo del covid, si deplorava l’eccesso di poteri delle Regioni; oggi se ne vogliono dare ancora di più. C’è una coerenza? Purtroppo sì, e sta in un disegno di divisione dell’Italia che risale indietro nel tempo, quando si teorizzava l’esigenza di svincolare i territori ricchi e dinamici dal fardello di quelli arretrati, per consentire ai primi di correre più velocemente dei secondi. Ricchi e poveri, gli uni ancora più distanti dagli altri.

Si parla continuamente di Nazione: non la stupisce che chi tanto la invoca abbia sostenuto una norma contraria al principio di solidarietà nazionale?

Solidarietà è parola costituzionale: doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il responsabile in solido con un altro è tenuto ad assumere su di sé un onere, rinunciando a qualcosa di proprio per aiutarlo. Così una parola un poco melensa e sentimentale, diventa piena di contenuto politico. L’autonomia differenziata è il contrario. I lep (i livelli essenziali di prestazioni validi su tutto il territorio) – posto che si riesca a definirli, il che è dubbio – non parlano affatto di solidarietà, ma di limiti minimi all’indifferenza, alla noncuranza dei forti nei confronti dei bisogni dei deboli.

Veniamo al premierato: qualche suo autorevole collega dice che la forma di governo deve essere messa in discussione per superare un sistema che ai vincitori delle elezioni non permette di governare. Sarebbe stato pensato dall’Assemblea costituente per la “paura del tiranno”. Quindi, per questo abbiamo una Costituzione che non fa vincere nessuno.

Perché? Le elezioni devono necessariamente servire a “far vincere” qualcuno?

Domanda sorprendente.

Le rappresentazioni della democrazia come guerra politica dovrebbero fare paura soprattutto in questo momento storico.

Paura?

Si guardi intorno. La democrazia come regime della concordia è in crisi. Se non c’è un minimo di concordanza sulle cose essenziali, non c’è da avere paura?

L’essenziale non lo troviamo nella Costituzione?

Dovremmo trovarlo. Ma, per l’appunto, si vuole cambiarla e, così, da ragione d’intesa diventa terreno di scontro. C’è una logica in ciò che accade e, a mio parere, è una logica perversa, per l’appunto pericolosa. Ogni riforma della Costituzione deve essere vista nel suo tempo. Viviamo un tempo di contrapposizioni radicali, irrimediabili, difficilmente gestibili. I problemi sono tanti, mai così ardui quanto oggi. Di fronte alle difficoltà, la democrazia come regime della pacificazione è in crisi. Non è vero che i pericoli uniscono. Piuttosto dividono. Guardi gli Usa, il sud-America, la Francia, l’est dell’Europa, eccetera. Perfino gli esiti elettorali, se non piacciono, si contestano: “Se perdiamo ci sarà la guerra civile”, s’è detto in attesa delle elezioni presidenziali americane. Anche da noi, in un passato recente, c’è stato un tentativo di disconoscere la legittimità delle elezioni. Nel momento in cui se ne mette in discussione la validità inizia la guerra civile, la guerra dell’odio che si combatte con ogni mezzo, non necessariamente con le armi. Le macchine del fango, le notizie infamanti inventate, i servizi segreti deviati, i dossier, i ricatti. Un clima d’odio è denunciato da ogni parte. L’Italia sotto una crosta pacioccona è un Paese tragico: dimentichiamo, non osiamo evocare l’epoca degli attentati, delle stragi di Stato, dei tentati golpe. Eppure sono lì e i responsabili maggiori stanno ancora nell’ombra.

Perché queste fosche idee le vengono in mente a proposito di “premierato”?

La riforma, per quanto sgangherata, ha però il suo perno e lì trova la sua essenza. È l’elezione diretta. Non importa di chi. All’inizio, del presidente della Repubblica. Poi, data l’indiscussa popolarità di Sergio Mattarella che è di ostacolo, si è ripiegato sul presidente del Consiglio. Dal “presidenzialismo” si è passati al “premierato” elettivo. Due cose diverse. La seconda, un ibrido, è un ripiego. Ma ciò che importa ai riformatori è che ci sia un’elezione diretta, cioè la chiamata degli elettori a schierarsi o di qua o di là, in due fronti contrapposti. Siccome chi propone una riforma non lo fa certo per gli altri e contro di sé, al fondo della riforma c’è la speranza e la previsione di trarne vantaggio, cioè di “vincere”. Per di più: di “vincere tutto”. “Ora prendiamo tutto”, versione attuale del non dimenticato “non ci saranno prigionieri”. Questo ho udito all’esito delle ultime elezioni. Lo stanno già facendo e ancor meglio lo potrebbero fare con la Costituzione che hanno in mente. La posta in gioco è alta e, più cresce più aumenta l’intensità del conflitto politico. Se è “tutto”, a tutto si è disposti. Non le pare che sia così?

Quale idea oppone alla “democrazia dei vincitori”?

Al di là delle formule, lo scontro sul premierato è giustificato da due visioni della politica, l’una autoritaria, l’altra partecipata. Con due immagini, si può dire così: la politica è la conquista del potere e il potere di chi ha “vinto” scende dall’alto e si stende sulla società, sugli individui e i loro diritti, le loro diverse articolazioni, economiche e culturali, associazioni, partiti, sindacati. Insomma, un potere conformativo, per non dire repressivo, a cascata, dall’alto verso il basso. La politica partecipata, all’opposto, si muove dal basso e procede verso l’alto; è come una corrente alimentata da tante bolle sorgive che confluiscono e producono energia, ciascuna secondo la propria consistenza. La legge è la risultante; la politica è l’arte non del comando, ma della sintesi. La democrazia del vincitore è bella perché è semplice; la democrazia della sintesi è ancor più bella perché è difficile, complicata, faticosa. E chi teme l’arrivo dei vincitori – quali che siano le loro bandiere – per nulla paradossalmente la preferisce proprio per questo.

Tuttavia, la forma di governo attuale è criticata proprio perché complicata.

Una cosa è l’abolizione delle complicazioni inutili. Un parlamento autonomo e rappresentativo, non appiattito sul premier come sua propaggine, nella politica del vincitore è un orpello inutile, ma non lo è affatto nella democrazia partecipata.

Dicono che i governi in Italia sono deboli, durano troppo poco e, così, vivono nel giorno per giorno, senza prospettive di lunga durata. Non è vero?

Se è così, e non sempre è così, ciò non dipende dalle regole giuridiche. Di fatto, il governo in Italia dispone di strumenti che gli consentirebbero quasi quello che vuole. Vogliamo ricordare i decreti legge e la questione di fiducia che si pone a tutto spiano azzerando le discussioni? Le ragioni dell’instabilità del governo sono intrinseche all’eterogeneità e alle contraddizioni delle coalizioni che lo sostengono. A ben vedere, il premierato non mira affatto a umiliare le opposizioni. Non ce n’è bisogno, è già così. Mira invece a esaltare il capo e umiliare i partiti diversi da quello del premier che stanno nella maggioranza. Sembra che non se ne accorgano e vadano giocondamente al macello.

Che cosa pensa della costituzionalizzazione del premio di maggioranza?

A essere precisi dovremmo dire che il premio di maggioranza è un premio di minoranza: si vuol dare un regalo a una minoranza che non è riuscita a diventare maggioranza con le sue forze. Poiché il numero dei deputati e dei senatori è fisso, il premio di maggioranza – quale che sia- non è solo un’aggiunta, ma è anche una sottrazione. I seggi dei deputati sono 400: se ne assegni 50 in più a una parte, li devi sottrarre alle altre. Sarà anche vero che qualcosa di simile esiste altrove, però come premio senza sottrazioni, ma è comunque una profonda ingiustizia, oltre che un incentivo a salire sul carro del probabile beneficiario, per partecipare alla festa.

Ai trucchi elettorali dobbiamo aggiungere il tasso di astensionismo sempre più alto: una catastrofe democratica.

È così. Vediamo che, a parte qualche deplorazione nell’immediato, non ci si preoccupa. Non si vuol vedere che cosa c’è in questa massa magmatica. Potrebbe essere una brutta sorpresa venire a saperlo. Con parole d’ordine rozze, violente e pericolose qualche demagogo potrebbe mobilitarla. Sotto questo aspetto, per paradosso, l’astensionismo è perfino una fortuna. Però, non si pensi di combatterlo con riforme elettorali. Chi non vota ha le sue ragioni o non-ragioni che dipendono non dalle regole elettorali, ma dalla speranza che gli uomini e le donne della politica sanno o non sanno dare agli elettori ai quali si propongono. Gli elettori distinguono chi fa della politica una professione nel proprio interesse e chi fa politica (almeno anche) nell’interesse di coloro ai quali chiedono il voto.

Come tanti astenuti, anche lei è perplesso, professore?

Certo che sì. Amiamo i perplessi. Solo che le perplessità devono essere momenti di passaggio alle convinzioni, devono cioè essere stimoli positivi. Altrimenti sono astenie, pericoli mortali per la democrazia.


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