
(Giulio Di Donato – lafionda.org) – La vicenda relativa all’incontro di pugilato tra l’algerina Imane Khelif e l’italiana Angela Carini agli ottavi di finale delle Olimpiadi di Parigi ha infiammato il dibattito pubblico, soprattutto quello social, generando facili polarizzazioni e scatenando un insopportabile gioco al massacro nei confronti delle due giovani atlete.
Anche stavolta i toni da propaganda e il quadro dei pregiudizi da una parte e dall’altra hanno prevalso sulla necessità di inquadrare una situazione estremamente complessa con un approccio laico e con il giusto senso della misura.
La storia di Imane Khelif rappresenta difatti un caso limite, raro, cui prestare grande attenzione, con spirito di inclusione e apertura. Stando a quanto finora ci risulta, è il caso di quelle persone che nascono con caratteristiche fisiche non definibili come esclusivamente maschili o femminili: si parla a tal proposito di condizioni intersessuali o dei cosiddetti “disordini dello sviluppo sessuale”. Si tratta di una particolarità che comunque non va vista in contraddizione con la circostanza che il sesso biologico sia binario, sebbene si tenda spesso a confondere la presenza dei tratti sessuali secondari con la natura del sesso da un punto di vista biologico-evolutivo: il fatto che si possono distinguere solo due categorie di sesso biologico, genetico, non implica che i singoli individui, a livello fenotipico, siano sempre e facilmente riconducibili all’una o all’altra tipologia.
In questa situazione l’estremismo woke e la paranoia anti-woke c’entrano dunque ben poco, se non per il modo in cui la vicenda viene tuttora strumentalizzata, colpevolizzando e diffamando le due ragazze, che, tra di loro – è bene sottolinearlo – non hanno mai utilizzato parole di reciproca ostilità.
Le domande da porsi ci sembrano solo le seguenti. La condizione di intersessualità genera una posizione di vantaggio competitivo ingiustificato? Se sì, da che punto di vista? L’iperandrogenismo può essere paragonato al doping? È una decisione corretta quella per cui le atlete con livelli di testosterone superiori a una ipotetica media femminile possono gareggiare assieme alle altre? Rispetto al quadro ormonale, più o meno in connessione con altri parametri, c’è la possibilità di stabilire una soglia armonizzante a livello internazionale? Questo e solo questo riteniamo debba essere valutato.
Una volta considerati questi aspetti della vicenda, possiamo provare ad allargare il discorso per riflettere meglio sulle implicazioni di carattere generale che ne possono derivare. Il problema, dal punto di vista di chi scrive, si pone quando questi casi limite vengono innalzati a casi decisivi, nel nome dei quali ridiscutere il (buon) senso generale di distinzioni consolidate. Qui il riferimento è alla suddivisione delle competizioni sportive tra uomini e donne. Ebbene, è difficile pensare che, rispetto a questa classificazione, si possa prescindere dal sesso biologico (da distinguere, come è noto, dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere). Certo, si può pensare di superare tale differenziazione, ma ciò comporterebbe un impoverimento ingiusto e inaccettabile. Del resto, distinguere non è mai in automatico discriminare. Inoltre, così come esiste il punto di vista delle minoranze esiste anche quello delle maggioranze: includere significa contemperare le ragioni degli uni come degli altri all’interno di un orizzonte il più possibile condiviso. In ogni caso, meglio aggiungere (introducendo ad esempio una nuova categoria aperta alle persone transgender), salvaguardando lo specifico (dai contorni in parte sempre sfumati) delle differenze, piuttosto che uniformare piegando tutto alla logica piatta e uniformante dell’indifferenziato. Si vogliono in alternativa includere le donne trans all’interno delle categorie sportive femminili? Bene, si può al limite pensare di valutare caso per caso, con equilibrio, razionalità e buon senso, ma è comunque una scelta che compete alle donne, in particolare agli organi di rappresentanza delle singole discipline votati dalle stesse. Insomma, uguaglianza sì, ma nelle differenze, contro qualsiasi tipo di omologazione, assolutizzazione e discriminazione, sia quest’ultima rivolta verso le minoranze o verso le maggioranze.
Maschile e femminile, natura e cultura: esistono come piani distinti, così come esistono le sfumature che incorporano e mescolano elementi di entrambe; sono cioè dimensioni diverse, ma costantemente in rapporto, in tensione, e tale relazione fra i due poli è ineludibile e non può essere rimossa. La sfida resta allora quella di pensare l’unità della nostra esperienza vitale al di là delle astrazioni, dei riduzionismi e delle unilateralità, senza separare o annullare artificialmente e ideologicamente ciò che è comunque in rapporto dialettico. Si tratta cioè di concepire hegelianamente la vita nella sua complessità, ad un tempo riconoscendo e trascendendo le distinzioni e le differenze, senza tuttavia annullarle o svalorizzarle. Ma il senso storico-dialettico è il grande assente di questo tempo malato di ingannevole fanatismo e manicheismo.