
(DI CARLO DI FOGGIA – ilfattoquotidiano.it) – L’inchiesta di Genova rischia di riaprire un caso Webuild per il governo. Guardiamo i fatti. Il 29 maggio 2015, intercettato dai pm romani nell’inchiesta “Amalgama”, l’allora direttore lavori del Covic, il consorzio che costruisce il Terzo Valico, Giampiero de Michelis, si sfoga con un imprenditore: “Sono arrivati a 60 milioni”, dice, ma nonostante i suoi sforzi “Pietro non è soddisfatto”. Pietro è Pietro Salini (non indagato), il grande capo del colosso di costruzioni Webuild, gigante del settore. Sette anni dopo, giugno 2022, la GdF intercetta il governatore ligure Giovanni Toti al telefono col presidente dell’Autorità portuale, Paolo Emilio Signorini (oggi entrambi arrestati), mentre discutono del mega-appalto della grande diga foranea del porto, anch’essa finita nel mirino della procura: “Lui dice che ci vogliono 400 milioni in più”, spiega Toti, dopo aver chiarito che “va un po’ rassicurato…”. Lui è sempre Salini (non indagato).
Le rassicurazioni al re dei costruttori non sono solo una costante delle grandi opere, ma illuminano anche il filo rosso che oggi collega Genova al ponte sullo Stretto di Messina passando per il ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini. Per capirlo basta leggere la relazione annuale appena pubblicata dall’Autorità Anticorruzione che dedica al ponte due pagine, lanciando l’allarme sulla decisione di Salvini di ripristinare il progetto del 2011 del Consorzio Eurolink, capitanato da Webuild. “I costi dell’opera (oggi a 14 miliardi, ndr ) – si legge – potrebbero subire notevoli aumenti in considerazione di ulteriori richieste e prescrizioni che potrebbero essere formulate da Eurolink”.
Le varianti, come le penali, sono d’altronde il principio e la fine del grande inganno cementizio. A Genova la diga è finita nel mirino dell’Anac per il cambio di capitolato d’appalto che ha finito per scaricare sulla stazione appaltante il “rischio geologico” e i relativi sovracosti milionari. Dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta che ha travolto Toti, si capisce che la richiesta fosse cara a Webuild, che ha poi vinto l’appalto. Il Fatto ha raccontato come i rischi fossero già stati denunciati dal project manager, Piero Silva, dimessosi dopo il rifiuto dei commissari per l’opera (Signorini e il sindaco Marco Bucci) di prevedere un’alternativa più agibile: costruire su fondali più bassi evitando il salto nel buio di un’opera enorme su fondali profondi e instabili. Non è un caso che la “sorpresa geologica” si sia materializzata subito. A febbraio l’Autorità portuale ha ammesso che “le indagini integrative” sui fondali hanno mostrato che i metodi di consolidamento previsti a progetto “avrebbero difficoltà a essere ritenuti efficaci”, con conseguente necessità di virare su soluzioni più costose. Il copione sembrava chiaro fin da subito. Intercettato, Signorini espliciterà il trucco al telefono con l’imprenditore portuale Aldo Spinelli (ora ai domiciliari): “Io sono convinto, come dice lui (Salini, ndr), che il rischio geologico…”. Spinelli coglie al volo il senso: “Ma poi trovi… in corso d’opera”.
Leggendo la relazione Anac, si intuisce il timore dei tecnici che qualcosa di simile possa accadere, ma al quadrato, per il ponte di Messina: “Un progetto così datato – si legge – potrebbe avere necessità di importanti modifiche sostanziali”. Il cui costo, però, viene scaricato sullo Stato: “Il rapporto con il contraente generale appare sbilanciato (…) finisce per attribuire al privato un notevolissimo potere contrattuale nell’ambito della definizione del contenzioso pregresso e nella determinazione di eventuali varianti e del relativo costo”. Anche perché la relazione d’aggiornamento al progetto avrebbe dovuto essere “affidata alla concessionaria o al ministero piuttosto che al professionista privato”, come invece è avvenuto. Insomma, se si parte con tante incognite, e per il ponte ce ne sono tantissime, si rischia lo stesso epilogo.
D’altronde, per capirlo, basta guardare al Terzo Valico ferroviario, la linea che deve collegare Genova a Milano: le “sorprese geologiche” sono valse tra agosto e dicembre 2023, 1,5 miliardi di extra-costi al consorzio guidato da Webuild, facendo salire il costo dai 4,8 miliardi del 2011 agli 11 attuali. Nella sua relazione, Anac segnala che le varianti sono ormai una costante “generalizzata” al punto che si rinvia “alla fase esecutiva la risoluzione di aspetti problematici non adeguatamente ponderati nella fase di affidamento del contratto”. Insomma, si procede un po’ a tentoni e poi si va di varianti. Giova ricordare che, nel febbraio scorso, il governo ha prorogato la norma che esclude le grandi “opere strategiche” dall’obbligo di sottoporre le varianti all’approvazione del Cipess, purché non superino il 50% del valore dell’opera.
Webuild, per dire, spiega nel bilancio che le riserve su varianti valgono il 7,2% dei ricavi. Il gigante che ha come secondo azionista la pubblica Cassa depositi, è ormai il monopolista delle grandi opere: nel 2019 aveva progetti in Italia per 9 miliardi, oggi sono 26. È l’azienda che ha preso più appalti del Pnrr (6,2 miliardi). Una progressione impressionante. A novembre scorso, sul Corsera, fu il ministro della Difesa Guido Crosetto a dar voce ai timori nel governo sulle capacità del colosso di rispettare i tempi. Webuild ha smentito ritardi.