Dalle Olimpiadi all’Ue, paga la retorica del «noi contro loro». Niente svolta conservatrice: Orban e Le Pen restano amici

(Flavia Perina – lastampa.it) – Il primo biennio di Giorgia Meloni, visto dai suoi elettori, è assai più di un biennio felix: è una marcia trionfale. Quando la premier racconta a Chi di aver raggiunto l’obbiettivo di costruire «un’Italia migliore di come l’avevo trovata» ci credono senza incertezze.
Lei è la ragazza che li ha vendicati delle ingiustizie della storia, la madre single che sacrifica i suoi affetti per il bene della nazione, la premier sorridente che tratta alla pari con i capi cinesi e americani, e in potenza quella che cambierà il Paese con le sue grandi riforme.
L’accidia dell’opposizione più sguaiata – quelli che dicono psiconana, melona, pesciaiola, fascista – è la conferma del suo valore. «Giorgia falli impazzire» scrivono i fan sui social spalmando ovunque i video dell’imbruttita a Vincenzo De Luca («Piacere, sono quella stronza di Meloni»).
Nell’Italia spaccata a metà come una mela, anche la rabbia impotente degli avversari è un plus. Dopo la stagione dei premier che volevano piacere a tutti con l’illusione di pescare voti in campi ostili, vedi Matteo Renzi e Giuseppe Conte, Meloni ha cambiato spartito e ha trovato la formula perfetta. Dispiacere ai nemici ogni volta che può: nel Paese dei Guelfi e Ghibellini è il modo migliore per tenersi stretti gli amici.
E dunque: custodia del consenso, voto 9, senz’altro. Finita l’età dei pasti gratis (cit. Veronica De Romanis), con le casse vuote, non potendo offrire 80 euro o redditi di cittadinanza, case rifatte gra-tui-ta-men-te o pensioni ai sessantenni, Meloni ha regalato al suo elettorato un’epica senza aggravi di bilancio. Noi contro loro. Piace, funziona. Ma comporta costi politici quando tra i “loro” finisce la capa dell’Europa Ursula von der Leyen e nel “noi”resta inchiodato uno come Viktor Orban, che l’Italia non riesce a censurare neanche sul blocco degli aiuti a Kiev. E altri costi si aggiungono se, sempre in nome di quella distinzione, il nemico diventa un’ossessione e il mondo meloniano va a cercarsi zuffe ovunque: con i giornali non allineati, con i leader europei antipatici, persino alle Olimpiadi, dove il magnifico spettacolo di gioventù e sport sotto il cielo di un’immensa capitale europea viene rinnegato in nome dell’ostilità a Emmanuel Macron (e forse dei legami con una lega pugilistica a guida russa).
Vedremo. Il primo biennio della prima premier donna italiana ha sciolto un dilemma significativo sul cammino della nostra destra. Ora sappiamo che non ripudierà il movimentismo nazional-populista in nome della svolta conservatrice.
A quel tipo di convoglio – la carovana su cui viaggiano Marine Le Pen, Santiago Abascal, in prospettiva di Donald Trump – Meloni vuole rimanere agganciata per ragioni di consenso, ma forse pure di convinzione, e ovviamente anche per non lasciare troppo spazio a Matteo Salvini. La linea del conflitto identitario non sarà attraversata o contaminata.
La marcia continuerà su quella direttrice, sperando che il racconto epico a misura di elettori prevalga sugli accidenti pratici che già si annunciano su Pnrr, flessibilità di bilancio, ruoli nella futura Commissione europea, dove il “noi e loro” funziona al contrario: più che simpatia alimenta disillusione e sospetto