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Khamenei temporeggia per logorare Israele

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Khamenei temporeggia per logorare Israele

(Domenico Quirico – lastampa.it) – La frase era chiara: «L’attesa fa già parte della punizione di Israele». Raramente un piano di guerra è stato enunciato pubblicamente in modo più breve aderente incisivo. Hassan Nasrallah è una delle menti più lucide, e quindi più pericolose, del vicino Oriente. Eppure le sue parole sono state commentate con geopolitici sghignazzi, anche d’autore: ecco, vedete, il capo di Hezbollah e il suo padrone Khamenei hanno paura, prendono tempo, minacciano a chiacchiere perché sanno che sono impotenti a vendicare lo schiaffo della uccisione a Teheran del capo di Hamas… E poi con il passare dei giorni un fiorire di annunci, rivelazioni, voci autorevoli per esaminare scrutare pesare alla ricerca dei motivi occulti e dei reconditi scopi che muoverebbero l’Iran e i suoi clienti dell’anello di fuoco attorno a Israele a colpire un giorno piuttosto che un altro. Giorno che finora si allontana differisce sfuma.

Proviamo a credere a ciò che ha detto Nasrallah, ovvero che la strategia sciita consista proprio nella imposizione della attesa, nell’apparizione voluta, imposta dagli iraniani di un tempo depotenziato, fisso in un eterno tormentoso presente, immobile usura. È il superamento del tempo della guerra nella sua duplice profondità del prima e del poi. Israele e i protagonisti delle guerre classiche capitalizzano vittorie e anche disfatte come il sette ottobre. Da questa capitalizzazione, non importa se gloriosa o dolorosa, traggono buon parte della energia necessaria per continuare a battersi. Il tempo tradizionale della guerra presuppone una datazione, una sequenza esplicita: attacco di Hamas, rappresaglia di Israele, raid clamoroso a Teheran, vendetta e poi vendetta della vendetta.

Ma qui niente di simile. Niente ora X. Niente apocalisse di droni. O attentato. Niente contrattacco punitivo sulle centrali atomiche iraniane. Non ci sono battaglie da datare, peripezie, raid, atrocità da denunciare all’Onu. Tra qualche mese sarà perfino difficile dire: È successo il giorno… perché è difficile sgattaiolare da questo tempo morto, da questo tempo temporeggiatore e ubiquo, da questa temporalità astratta che è evidentemente la guerra che gli iraniani vogliono. L’unica che converrebbe loro, l’unica che potrebbero vincere.

Teheran può semplicemente continuare a mantenere la pressione su Israele come fa dal sette di ottobre dopo l’attacco di Hamas. Non deve firmare nessun attacco esplicito perché sa lo condannerebbe a una gigantesca rappresaglia forse non solo israeliana, lo trascinerebbe in una guerra a cui ha solo da perdere (almeno fino a quando non disporrà dell’atomica). Il fronte sud in Palestina ha già fruttato molto, «Tzahal» da dieci mesi è insabbiato in una guerra totale, sanguinosa e sterile, che lo ha isolato dalle opinioni pubbliche senza aver estirpato il problema. L’enormità del non vincere esiziale per quello che si definiva un esercito perfetto. Una parte degli israeliani, destinata ad allargarsi con il trascorrere del tempo, è di fronte a un dubbio che li lascia senza fiato: e se per la prima volta l’ebreo non fosse lui? Se il perseguitato il martire fosse l’altro? Se il vero ebreo della nuova Storia fosse il suo nemico, il palestinese?

Poi c’è il nord, il Libano di Hezbollah. Una parte del territorio israeliano è stata abbandonata sotto lo stillicidio dei bombardamenti quotidiani da oltre frontiera, che peraltro non scavalcano mai la soglia «dell’ordinaria amministrazione», sono goccia non bufera proprio per non scatenare una rappresaglia «anormale». Ma bastano per disorganizzare. Passano i mesi, le crepe sotterranee nella politica e nella società di Israele si allargano forse più in fretta di quelle che noi desideriamo nell’ordine degli ayatollah, l’economia di un paese sviluppato e moderno è più fragile se sottoposta all’usura di una popolazione mobilitata e sempre più insofferente. La società reagisce con calma e determinazione finora.

Nel breve periodo certo, ma le guerre grosse di Israele sono durate poche settimane, una addirittura solo sei giorni. Gli israeliani sono troppo occidentali, questo è il loro punto debole. Questa è un terra di millenni. È un mondo in cui nessuno, soprattutto i fanatici, ha fretta. Ciò di cui dovrebbero aver paura è sentire il passare di giorni in cui non succede nulla di enorme ma anche di liberatorio, in cui il tempo sembra incastrato dal sette ottobre, e che essi possano essere un episodio. il loro punto debole è di essere la Storia, con le sue approssimazioni geniali, di essere la ragione dell’Occidente. Rischiano di essere sconfitti di fronte al fiume millenario della attesa orientale, dello scorrere vuoto del tempo. L’egiziano Nasser una volta disse: impiegheremo mille anni ma cacceremo gli ebrei, e non era un jihadista o un fanatico sciita. Non sono i missili o i droni o la diplomazia araba che asserve l’Occidente comprandolo che devono spaventarli: semmai il sentirsi provvisori, di avere l’aleatorietà della Storia contrapposta al mito, al perenne.

Pensate, se volete un esempio della tattica temporeggiatrice dell’Iran, alla corrida, che è un lento affievolire il toro prima di arrivare al «descabellar», all’ucciderlo quando è moribondo. Prima è un lungo lavoro di «picar»e di «banderillas». E di «quite», uno dei grandi momenti della corrida, l’atto di portar via, di distrarre il toro. A questo sono impiegati Hezbollah, gli Huthi, Hamas.

Ad aver bisogno disperatamente di un attacco iraniano è Netanyahu. È lui che lo cerca, lo invoca, ha appeso il suo futuro a questo duello finale non più con i complici ma con il vero nemico, Teheran, trascinando nella mischia anche l’incerto, balbettante alleato americano. Per i guardiani della rivoluzione, invece è vitale resistere alla tentazione, pazientare, inchiodare Israele alla lenta, invisibile agonia del giorno dopo giorno. Imitare quei rivoluzionari francesi che spararono agli orologi per esser sicuri di sospendere e rovesciare il corso di un tempo che sapevano sarebbe stato sempre il tempo del più forte, cioè di Israele.


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