Declino demografico – Tre volte più veloce che nelle città. In 20 anni via 160mila giovani laureati. Dai territori marginali del Sud parte metà dell’emigrazione interna

(Di Ma. Pa. – ilfattoquotidiano.it) – Volendo iniziare dalle buone notizie va detto che i 700mila residenti che abitano nei comuni cosiddetti “ultraperiferici”, il peggio quanto a collegamenti e servizi, hanno una speranza di vita a 60 anni più alta della media, specie nel Mezzogiorno. L’Istat, nel suo recente Focus sulla demografia delle aree interne, attribuisce la cosa alla “migliore qualità della vita”. Va detto, però, che già chi risiede in un Comune solo “periferico” muore prima di chi sta in città o nei cosiddetti “Poli intercomunali” e che il vantaggio degli ultraperiferici al Centro-Nord è minore, “compensato da una più ampia disponibilità di servizi”, in specie socio-sanitari.
Tutti gli altri numeri del report dell’Istituto nazionale di statistica, comunque, fanno piangere. Partiamo da quelli generali. In base alla mappatura per la Strategia nazionale per il ciclo 2021-2027 negli oltre 4mila Comuni delle “aree interne” risiedono 13,3 milioni di individui, circa un quarto della popolazione italiana: 8 milioni abitano nei “Comuni intermedi”, 4,6 milioni in quelli “periferici”, 700mila negli “ultraperiferici” (nei cosiddetti “Centri” – cioè Poli, Poli intercomunali, Comuni di Cintura – vivono invece 45,7 milioni di persone). È quel pezzo di Italia in cui il declino demografico, lo spopolamento, si tocca quasi con la mano, si riesce a vederlo con gli occhi: “Si tratta di territori fragili nei quali i fenomeni demografici, come l’invecchiamento della popolazione e l’abbandono a causa delle migrazioni, sono esacerbati rispetto al resto del Paese”, scrive Istat.
I dati sono impietosi. Tra 2002 e 2014 in Italia la popolazione residente era cresciuta del 5,9% fino a superare i 60 milioni di persone: l’aumento però fu del 6,9% nei Centri e solo del 2,9 nelle aree interne. “Dal 1° gennaio 2014 al 1° gennaio 2024 la popolazione residente nelle Aree interne è poi diminuita del 5,0% (da 14 milioni a 13 milioni e 300mila individui), mentre quella dei Centri dell’1,4% (da 46 milioni e 300mila a 45 milioni e 700mila)”. In sostanza, le aree interne sono responsabili per metà del calo della popolazione italiana nell’ultimo decennio, pur pesando per un quarto di quella totale: il ritmo del declino è, insomma, oltre tre volte più veloce di quello di città e dintorni. Peggio ancora se si isola il dato dei Comuni periferici e ultraperiferici: tra 2002 e 2014 i primi hanno visto gli abitanti aumentare solo dello 0,6%, i secondi scendere del 3,1%; nell’ultimo decennio hanno perso invece, rispettivamente, il 6,3 e il 7,7% dei residenti.
Come spesso capita in queste statistiche, il Mezzogiorno va assai peggio del resto del Paese: le aree interne del Sud dal 2014 hanno perso in totale il 6,3% della popolazione (483mila individui), il Centro il 4,3% e il Nord il 2,7% (oltre centomila persone per entrambi). Non è solo la dinamica sfavorevole di morti e nascite a spiegare questi numeri, un peso anche maggiore ha l’emigrazione tanto interna che esterna. Dal 2002 al 2023 le aree interne hanno perso quasi 200mila residenti a favore dei centri italiani: il 46,2% delle partenze origina dal Sud, il 34,1 dal Nord, il 19,7% dal Centro. A beneficiarne sono stati soprattutto le città del Nord, che hanno accolto il 50,8% del flusso: l’altro lato della medaglia è che le aree interne del Mezzogiorno pesano per metà dei movimenti interni. Anche l’emigrazione verso l’estero ha il suo peso: i tassi di espatrio delle aree interne sono superiori alla media nazionale e riguardano, come per i Centri d’altronde, soprattutto i giovani adulti (25-39 anni). “Tra 2002 e 2022 – spiega l’Istat – si sono complessivamente spostati dalle Aree interne verso i Centri poco meno di 330mila giovani laureati di 25-39 anni, mentre appena 45mila verso l’estero. Nello stesso periodo, sono rientrati verso le Aree interne 198mila giovani laureati dai Centri e 17mila dall’estero”. Tradotto: “La perdita di capitale umano è pari a 132mila giovani risorse qualificate a favore dei Centri e di 28mila a favore dei Paesi esteri”, 160mila in tutto.
Una popolazione sempre più vecchia, una socialità sempre meno ricca, un’economia che offre sempre meno prospettive di vita e lavoro. Questo è il ritratto dell’Italia che sta sparendo. E lo farà davvero se non si fa qualcosa: l’Istat prevede popolazione in calo per la maggior parte dei Comuni italiani (e l’Italia in generale), ma nelle aree interne il declino interesserà l’82% dei paesi, il 90% al Sud.
Il flop del Piano “aree interne”: completati il 19% dei progetti
Il ciclo 2014-2020 – Un quinto degli interventi “non avviato”. In nove delle 72 zone coinvolte non è stato speso un euro

(Di Marco Palombi – ilfattoquotidiano.it) – La burocrazia le chiama “aree interne”, anche se il poeta Franco Arminio preferisce “aree intense”. Geograficamente parliamo di un bel pezzo d’Italia, a livello amministrativo di oltre 4mila Comuni, il 48,5% del totale, nei quali al 1° gennaio 2024 vivevano 13 milioni e 300mila italiani e stranieri: saranno già di meno come vi spieghiamo nel pezzo accanto, perché le aree interne o intense che siano sono il buco nero della nostra capacità di pensare il Paese (o la Nazione, se siete Giorgia Meloni). Tecnicamente si parla qui di quei paesi – a volte borghi bellissimi, altre squallidi aggregati di case – che non hanno un ospedale, non hanno una scuola superiore e a volte neanche la media, non hanno una stazione e sono lontani dalle grandi arterie stradali: si trovano spesso in collina o in montagna, di preferenza al Sud e sull’Appennino e per secoli sono stati un pezzo della cultura (e della cura) del territorio in Italia e in Europa.
“Sono il futuro”, dicono spesso a Bruxelles e pure a Roma. Magari pensano all’insostenibile inumanità di un modello di sviluppo città-centrico o all’erosione costiera dovuta al cambiamento climatico. Ad essere sinceri, però, le aree interne ad oggi il futuro sembrano averlo alle spalle, anche per il fallimento dei progetti pubblici che dovevano rilanciarle, ripopolarle, avviarle a un nuovo sviluppo.
Ripartiamo da capo. L’Italia s’è dotata di una Strategia nazionale per le aree interne (Snai) nell’ormai lontano 2013 su impulso dell’allora ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca: una strategia che conta su fondi nazionali e comunitari, da realizzare in pericoloso equilibrio tra dimensione locale e nazionale, “un intreccio di intimità e distanza”, spiega ancora Arminio, cantore e teorico dell’Italia abbandonata. L’idea di fondo, sensatissima, è assicurare anche nelle aree interne i diritti essenziali di cittadinanza (trasporto, istruzione e servizi socio-sanitari), favorendo al contempo lo sviluppo economico per bloccare lo spopolamento. Com’è noto, però, la classe dirigente italiana – locale, regionale e nazionale – fa fatica a coprire lo spazio tra l’idea e la sua realizzazione: all’ultimo monitoraggio sul ciclo di programmazione 2014-2020 (sì, è ancora in corso), che riguarda 72 aree interne e 1.060 Comuni in tutta Italia, risultano il 4% di “progetti liquidati” (già pagati), il 15% “conclusi”, il 58% “in corso” e il 23% addirittura “non avviati”.
In soldi si può tradurre così: tra risorse nazionali e comunitarie il ciclo 2014-2020 vale 480 milioni e ha prodotto ad oggi impegni per 266 milioni e pagamenti veri per 185 milioni: teoricamente, almeno per i fondi europei, la rendicontazione va consegnata (dopo l’ennesima proroga) entro luglio 2025, poi si perderanno i soldi. Del ciclo di programmazione 2021- 2027, che ha aggiunto altre 56 aree interne alle 72 del primo ciclo, non conta neppure parlare: la lista dei territori è stata definita alla fine del 2023, praticamente non è ancora partito.
La lista degli interventi per il ciclo 2014-2020 e il loro livello di avanzamento – consultabile sul meritorio sito opencoesione.gov.it – è una sorta di palinodia dell’amministrazione italiana ad ogni livello di rilievo e potere: su 72 aree interessate dagli interventi della Snai in ben nove, il 12,5%, dopo dieci anni non risulta attivato neanche un pagamento. All’area dei Monti Simbruini, nel Lazio, sono ad esempio destinatati 9,1 milioni, ma l’82% dei 47 progetti previsti è tra i “non avviati”: ad esempio il potenziamento dell’assistenza domiciliare (830mila euro) andrebbe concluso entro dicembre, ma non è mai partito, come il servizio di telemedicina (538mila euro), quello di trasporto pubblico a chiamata (1 milione), il taxi sociale (190mila) o le strutture sportive per un polo scolastico (350mila euro). Sempre nel Lazio giacciono ancora inutilizzati i nove milioni e mezzo per la Valle di Comino (29 progetti, l’80% non avviati) e gli 8,6 milioni per l’Alta Tuscia (29 progetti, 71% non avviati). Zero pagamenti pure sui 3,2 milioni per l’area interna Tammaro-Titerno in Campania, metà teoricamente destinati a cultura e turismo, che vanta il 98% di progetti non avviati.
La situazione, come spesso capita, è complessivamente peggiore nel Mezzogiorno, ma pure il Nord si sente spesso poco bene: se Puglia e Basilicata, ad esempio, hanno performance migliori della media, il Piemonte zoppica assai. Gli 8,2 milioni destinati alla Val d’Ossola hanno prodotto 10.400 euro di impegni e 6.800 euro di pagamenti: d’altra parte il 95% dei 19 progetti monitorati non è avviato. Tutto fermo per le centraline di cogenerazione (1,6 milioni), zero carbonella per il progetto “Scuola aperta” (850mila euro), come pure per il recupero dell’ex Bulloneria di Vogogna, destinata a diventare un polo universitario (1,2 milioni). E ancora: gli interventi previsti in Val di Lanzo e in Val Bormida – una decina di milioni in tutto – non vanno meglio e presentano rispettivamente l’81 e l’84% di progetti non avviati all’ultimo monitoraggio.
La governance della Strategia nazionale per le aree interne è cambiata più volte, anche recentemente, tanto che adesso il ministero di Raffaele Fitto ora la chiama Piano strategico nazionale delle aree interne: per scrivere la nuova versione il dipartimento per la coesione ha lanciato a luglio una consultazione pubblica che si chiuderà il 6 settembre. Invitalia, in un rapporto sulla vecchia strategia, sostiene che abbia innovato i processi di co-programmazione e co-progettazione e in qualche Comune migliorato le competenze amministrative, ma poi dice anche che la capacità progettuale e le difficoltà nei rapporti inter-istituzionali (cioè tra i vari livelli di governo) sono il buco nero di questa esperienza.
Il timore di molti è che, come già capitato per le politiche di coesione in generale, l’approccio del ministro Fitto e del governo Meloni sia di fatto dirigista: una contrattazione tra burocrazia ministeriale e burocrazia regionale senza spazi per la vita concreta dei luoghi. Sarebbe un errore enorme. Lasciamo a descriverlo ancora Arminio, perché solo un poeta conosce lo spazio esatto tra intimità e distanza: “Bisogna mobilitare i cittadini e non gli esperti a procacciarsi finanziamenti che poi non hanno ricadute reali sulla vita dei luoghi (…) Parlare dei servizi: scuole, trasporti, sanità, partendo dalle persone che devono fare le cose più che dai piani che girano da un ufficio all’altro”. Ne va – né più né meno – del nostro posto nella storia: “Le aree intense sono anche la resistenza dell’intelligenza artigianale all’intelligenza artificiale, il luogo dell’intreccio tra il computer e il pero selvatico, il laboratorio di azioni urgenti e concrete per costruire una nuova poetica dell’abitare, un nuovo umanesimo di cui l’Italia può e deve essere punto di riferimento nel mondo”. La speranza è l’ultima a morire, si sa, però alla fine muore.