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Le due guerre fra nemici che si somigliano molto

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(Di Gad Lerner – ilfattoquotidiano.it) – Intanto che la guerra si propaga a cerchi concentrici, spaccando al suo interno anche quella che un tempo veniva chiamata civiltà occidentale, è nei luoghi in cui è esplosa che avvertiamo, ogni giorno che passa, un surplus di ferocia: in Ucraina e in Russia; in Israele e/o Palestina. Una crudeltà indecente, ostentata e rivendicata là dove in passato ci si premurava di tenerla nascosta. Un imbarbarimento contagioso che trascina i contraenti a rinchiudersi nell’istinto di appartenenza; e sollecita negli spettatori un moto di ripulsa morale più che giustificato ma che, da solo, non aiuterà a comprendere cosa (ci) sta capitando.

Può sembrare il momento meno adatto per scriverlo, eppure chi voglia lanciare sui due conflitti lo sguardo lungo della storia può constatare che, fra i nemici che si combattono, le somiglianze sono più delle differenze. L’intreccio è più evidente tra russi e ucraini, non solo per ragioni culturali, religiose, linguistiche, ma perché numerosissime sono le famiglie miste. E non succede affatto che gli ucraini russofoni siano più teneri degli altri con Putin. Spesso a temere l’annessione è proprio chi ha parenti nella Federazione Russa. Ma ciò non renderà meno avvilente per lui la maniacale campagna di “derussificazione” operata dal governo di Kiev. Speculare alla propaganda di Mosca secondo cui l’indipendentismo ucraino sarebbe equiparabile al fascismo novecentesco.

Meno scontato è riconoscere le somiglianze fra israeliani e palestinesi, anche se nei gruppi dirigenti dei due popoli predominano oggi analoghe visioni apocalittiche, la pretesa di un diritto divino di possesso della stessa terra, l’imperativo religioso di estirparne l’altro. Un equivoco ricorrente è poi quello di annoverare Israele come mero avamposto del blocco occidentale in Medio Oriente. Col che si trascura un fattore essenziale: sono proprio gli ebrei orientali, discendenti da quelli espulsi o fuggiti dai Paesi arabi, i più oltranzisti nel negare ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione. Sono loro, gli orientali, la base di massa di una guerra sempre più somigliante a una guerra civile tipicamente mediorientale, impasto di etnonazionalismo e fondamentalismo religioso.

Scrivo mentre sono in corso spedizioni punitive dell’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata dal lontano 1967, sottomessa ma non annessa perché fra profughi e antichi residenti ci vivono tre milioni di palestinesi di cui è difficile sbarazzarsi. Sembra che la storia vada all’indietro anziché in avanti. Mentre i soldati circondano l’ospedale di Jenin, io ricordo che negli anni Settanta ci andavo tranquillamente a incontrare i sindaci palestinesi affiliati all’Olp prendendo l’autobus a Gerusalemme est. L’occupazione era un sopruso che genererà kamikaze e altre mostruosità, ma i palestinesi facevano i pendolari per lavorare a Tel Aviv e gli abitanti dei kibbutz del Sinai andavano a far la spesa al mercato di Gaza. Dico che la storia sembra andare all’indietro riferendomi agli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando arabi palestinesi ed ebrei, sotto il mandato britannico, coabitavano fianco a fianco. Fu un tempo macchiato da pogrom e attentati sanguinosi. Ma erano pur sempre episodi inseriti in un contesto di vita comune, di reciproca conoscenza. Chi non ci crede vada a leggersi I sette giorni di Avraham Bogatir, bel romanzo-testimonianza di Gyorgy Kardos che la casa editrice e/o ha giustamente ripubblicato. Il feticcio dell’identità distintiva, l’essere ebreo o arabo, israeliano o palestinese, viene tuttora demolito laggiù nell’elaborazione creativa di tante menti illuminate. Come gli uccelli di Wajdi Mouawad, piccolo capolavoro in forma teatrale tradotto da Einaudi, ha fra i suoi protagonisti un sionista messianico che scopre ormai cinquantenne di essere in realtà un palestinese: colui che credeva suo padre, soldato durante la Guerra dei Sei giorni, lo aveva tratto in salvo e adottato quand’era appena nato. Anche nel classico Il frutteto di Benjamin Tammuz (e/o) compare la figura di Ovadia, non si sa bene se più arabo o più ebreo. Ma che importa?

Lungi da me l’invito a rifugiarsi nel sentimentalismo di maniera intanto che la guerra fra nemici che si somigliano inferocisce a livelli medioevali. Voglio solo dire che l’indignazione resta una molla che scatta a vuoto se tra russi e ucraini, fra palestinesi e israeliani, non si individuano i possibili percorsi di avvicinamento, di rassicurazione, di riconciliazione. La guerra nell’Europa dell’Est coinvolge un mosaico di popolazioni e nazionalità che coabitano da secoli e continueranno a coabitare. La guerra che chiamiamo di Gaza contrappone due popoli che non hanno nessun altro posto in cui andare a vivere. La storia ci insegna che queste comunanze di destini possono dare esiti di avvicinamento insperati in tempi molto più rapidi di quanto la tragedia in corso lasci presagire.


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