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L’assegno di (non) inclusione: rifiutato pure a chi ne ha diritto

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Guerra ai poveri – Sistema “punitivo”, piattaforme che non funzionano e il sospetto che i troppi “no” servano a fare cassa

(Di Roberto Rotunno – ilfattoquotidiano.it) – Colloquio con il centro per l’impiego: fatto. Incontro presso i servizi sociali del Comune: fatto. Patto di attivazione: accettato e firmato. Assegno di inclusione: non ottenuto. La piattaforma digitale voluta dalla ministra del Lavoro Marina Calderone funziona male, spesso non registra in tempo l’aggiornamento e la pratica per l’Adi risulta sospesa. Tradotto: il beneficiario ha rispettato i suoi doveri, ma il pagamento è bloccato e lui non sa neanche perché.

Questa situazione surreale riguarda molti di quelli che stanno ricevendo (o sperando di ricevere) la misura anti-povertà che da gennaio ha sostituito il Reddito di cittadinanza. L’Adi infatti, oltre a essere molto più severo nei requisiti di accesso (tanto da aver dimezzato la platea di aventi diritto), si sta dimostrando anche molto più farraginoso nelle procedure, spesso inefficiente, col risultato di far perdere l’assegno mensile anche a persone che hanno adempiuto ai propri obblighi: è il caso, per dire, di una persona che – come Il Fatto ha verificato – il 1° luglio s’è presentata al Centro per l’impiego (Cpi) per aggiornare il Patto per il lavoro, ma il 6 luglio s’è vista inspiegabilmente sospendere il sussidio.

Il sospetto, fondato, è che dietro questa macchinosità e questi errori vi sia un disegno politico, che punta a disincentivare le richieste poiché, come vedremo dalle testimonianze, il percorso è davvero esasperante. Per chi ricorda che uno degli obiettivi dichiarati dell’abolizione del Reddito di cittadinanza era far risparmiare una cospicua cifra allo Stato, suonerà come un campanello d’allarme il fatto che ora, nelle indiscrezioni sulla manovra, si parli di altri 2 miliardi di minori spese da realizzare sul capitolo sussidi anti-povertà.

Come che sia, il risultato è un disagio sociale che trova poca attenzione da parte dei media tradizionali, ma che vede migliaia di protagonisti di questa Odissea riversarsi da mesi in gruppi Facebook dedicati al tema (in pagina vedete alcuni post) e a volte radunarsi fisicamente fuori dai Centri per l’impiego.

Facciamo una premessa: è molto difficile quantificare il numero di persone coinvolte da questi disservizi. Il motivo è che sia il ministero del Lavoro che l’Inps si rifiutano da mesi di pubblicare dati completi sull’andamento dell’Assegno di inclusione e del Supporto lavoro e formazione (Sfl). Ad esempio non conosciamo il numero di domande respinte, né di quelle sospese durante la fruizione del sussidio (e ovviamente ignoriamo i motivi). Questo buio totale calato sulla trasparenza va a braccetto con le storie sui bug del sistema che, come detto, spesso penalizza anche chi è in regola. A raccogliere le loro storie è l’associazione “Anna”, che riunisce gli ex navigator che per anni hanno assistito i beneficiari del Rdc e quindi conoscono anche le difficoltà che incontra chi deve interfacciarsi con una burocrazia oggi resa ancora più faticosa.

Il mantra del centrodestra, lo ricorderemo, era evitare i sussidi “a pioggia” e prevedere l’obbligo stringente per i beneficiari di seguire percorsi personalizzati ai servizi sociali e ai Centri per l’impiego. A questo fine è stato creato un sistema molto pressante: la piattaforma Siisl, presentata con enfasi un anno fa dalla ministra Calderone, riporta il conto alla rovescia dei giorni entro cui il beneficiario deve recarsi al Cpi o dagli assistenti sociali, pena la sospensione del pagamento. Una bomba a orologeria che si disinnesca (e riparte da zero) quando si rispetta l’obbligo. C’è però un primo problema: il beneficiario non deve presentarsi spontaneamente al Centro o in Comune, deve aspettare la convocazione. Solo che gli enti, spesso sotto organico, a volte non fanno in tempo. Prendiamo il caso della signora S., napoletana, che ha presentato domanda a dicembre 2023: accolta. Dopo il primo incontro coi servizi sociali, non ha avuto alcuna convocazione nei successivi 60 giorni: a luglio il sussidio le è stato sospeso. La signora A. è invece residente a Bari, a maggio ha tenuto regolarmente il colloquio e firmato il Patto per il lavoro, ma a luglio ancora non risultava aggiornato il sistema. Quindi le è stato sospeso il pagamento.

Questi casi descrivono chiaramente un problema annoso della nostra Pa: la mancata comunicazione tra piattaforme. Il governo Meloni aveva promesso di risolvere tutto in poco tempo, ma non pare averlo fatto. Al contrario, anziché razionalizzare i portali e renderli più interoperabili, li ha moltiplicati. Oggi abbiamo ben cinque piattaforme: la Siisl, quella dell’Inps, MyAnpal (malgrado l’Anpal sia stata abolita) per le offerte di lavoro, Gepi per i percorsi dei servizi sociali e poi le singole piattaforme regionali dei Centri per l’impiego, dato che la competenza in materia di politiche attive del lavoro resta regionale.

Un sistema farraginoso che funzionerebbe solo se ci fosse la garanzia di un simultaneo passaggio di informazioni da una piattaforma all’altra. E invece è il caos e a farne le spese è anche chi ha fatto tutto quel che gli veniva chiesto, costretto poi a lottare per vedersi riconosciuto quel che gli spetta. Ecco perché, come si diceva, questo guazzabuglio sembra il risultato di una scelta volontaria del governo: rendere impossibile la vita di chi chiede sussidi contro la povertà fino a farlo desistere. Un modo subdolo per sfoltire chirurgicamente la platea degli aventi diritto con annessa la beffa della propaganda elettorale sulla gente che non ha voglia di lavorare. Dal ministero del Lavoro ammettono che effettivamente le segnalazioni di problemi ci sono e spiegano che è all’opera un gruppo di lavoro negli uffici per “risolvere le fisiologiche criticità che emergono quando si mette in asse un sistema molto articolato e che coinvolge i servizi sociali, i Centri per l’impiego e gli organismi centrali”.

L’abolizione del Reddito di cittadinanza era uno dei punti del programma del centrodestra. Problema: era impraticabile per varie ragioni. Uno pratico: in Italia 5,7 milioni di persone vivono in povertà assoluta, impossibile lasciarle tutte senza aiuti. Un altro “giuridico”: l’Ue spinge affinché ogni Stato si doti di schemi di un reddito minimo. Risultato: il governo ha inventato una riforma che aveva l’unico scopo di ridurre, e di molto, il numero di persone aiutate (il Rdc aveva raggiunto 1,4 milioni di famiglie, ora sono meno di 700 mila). La nuova legge infatti ha limitato il sussidio ai nuclei con almeno un minore, un ultra 60enne o un disabile. Contemporaneamente è stata abbassata la soglia di reddito per ottenere l’assegno: molte famiglie “fragili” hanno comunque perso il sussidio e oggi sono rimaste senza aiuti.

“Le misure che hanno sostituito il Reddito di cittadinanza – dice l’economista Pasquale Tridico, ex presidente Inps e oggi eurodeputato M5S – rischiano di diventare uno strumento politico, con margini di discrezionalità e arbitrio inaccettabili per una misura contro la povertà. In tutti i Paesi europei tali misure sono universali. In Italia, dopo la riforma del reddito di cittadinanza, sono stati introdotti criteri non reddituali, ma categoriali e discriminanti. A non dire che i ritardi dei pagamenti, le sospensioni e la mancanza di una piattaforma efficiente e trasparente stanno buttando in un limbo di disperazione centinaia di migliaia di persone bisognose”.


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