La rabbia del leader leghista, che lancia un appello ai suoi: “Tutti a Palermo il 18 ottobre”. Intanto prepara Pontida con Orban. La telefonata di Meloni

(di Lorenzo De Cicco, Antonio Fraschilla – repubblica.it) – Il video di replica, con il petto in fuori, per dire che lui «ha difeso la patria» lo aveva preparato ore prima della richiesta della procura di Palermo di condanna nei suoi confronti. Nel volto nessun cenno di tensione particolare, una serenità ostentata nonostante quel nero scuro tenebroso a fare da sfondo alla telecamera. Il messaggio sottinteso del set allestito da Matteo Salvini è chiaro: cavalcare la richiesta dei pm per fare la vittima. Non a caso il vicepremier ha detto ieri ai suoi «di mobilitarsi da qui al 18 ottobre», data dell’arringa della sua difesa guidata da Giulia Bongiorno: li vuole tutti a Palermo, a fare tifo da stadio davanti al Tribunale.
Ma al di là dell’aspetto mediatico, le notizie da Palermo gli creano un problema di non poco conto rispetto ai suoi piani. Il ministro delle Infrastrutture non è per nulla sereno. Ha accolto la notizia nella sua casa di Milano e tra le prime telefonate di «solidarietà» ha ricevuto quella della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma chi lo ha sentito fuori dai convenevoli ha avuto modo di ascoltare un Matteo nervoso. Non tanto per il rischio di condanna, non è questo che lo preoccupa oggi: «I tempi della giustizia sono lunghi tra appello e Cassazione», ragiona un suo fedelissimo. Quello che preoccupa il segretario della Lega è il momento particolare nel quale arriva la richiesta della procura: dal suo punto di vista, sarebbe stato il migliore da due anni a questa parte. L’obiettivo è ritagliarsi spazi a discapito di una premier mai come oggi in difficoltà per le vicende che coinvolgono i suoi ministri, da Gennaro Sangiuliano all’ex cognato Francesco Lollobrigida. Meloni alle prese con una manovra economica che non consente margini per concedere quel che gli alleati richiedono: in primis, quelle della stessa Lega sulle pensioni. «Il dire “non si può fare” spetta alla premier mica a lui», ragionano in via Bellerio.
In questo scenario Salvini sperava di emergere insieme alla sua squadra: «I nostri ministri e sottosegretari si stanno dimostrando i migliori, su questo fronte siamo tranquilli», diceva nei giorni scorsi a un gruppo ristretto di leghisti. Un piano che rischia però di essere messo in difficoltà dalla richiesta di condanna arrivata dalla procura di Palermo.
Una condanna, anche se in primo grado (la sentenza arriverà entro l’anno), lo metterebbe in difficoltà non solo nei rapporti con Meloni ma anche negli equilibri interni alla Lega. Nel peggiore degli incubi salviniani si staglia una possibile richiesta di cambio al vertice che parta dalla base. Non a caso il ministro ha annunciato ai suoi che il congresso federale, il primo da sette anni, che aveva fissato «entro l’anno», slitterà al 2025. Annuncio fatto nel Consiglio di tre giorni fa, in cui non a caso sono stati designati due nuovi vicesegretari, il fedelissimo veneto Alberto Stefani e il luogotenente del “Capitano” al Sud, Claudio Durigon, al posto di Giancarlo Giorgetti e Lorenzo Fontana. Nomine varate in fretta per blindarsi ed evitare di scoprirsi sul fronte interno, in vista di mesi complicati tra le beghe giudiziarie e l’ascesa di Roberto Vannacci, che la prossima settimana allestirà la sua prima kermersse personale, a Viterbo.
Salvini prepara invece la sua prova di forza al raduno di Pontida, al quale ha invitato Viktor Orban e Marine Le Pen, sperando in una improbabile apparizione di Umberto Bossi per rincuorare la vecchia guarda leghista. Mentre per rassicurare i dirigenti che continuano a invocare una conta, da mesi il vicepremier ha acconsentito che i congressi regionali si celebrino comunque entro Natale. In ballo c’è soprattutto la guida del partito in Lombardia, cuore pulsante (con il Veneto) del leghismo. In pista da mesi il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, big leghista della prima ora a cui però potrebbe opporsi un salviniano di ferro, Andrea Crippa, vicesegretario nazionale. In alternativa, Luca Toccalini, a capo della giovanile. Ancora, l’ultimo nome che rimbalza nelle chat del Carroccio è quello dell’ex deputato Davide Caparini, oggi presidente della Commissione Bilancio al Pirellone. Se si andasse a una conta ruvida fra lumbard, sarebbe davvero un antipasto della sfida nazionale. Per ora nessuno ha reso pubblico l’intento di sfidare il leader. Al momento, appunto.
La lezione dell’Odissea e quei principi che la destra sovranista vuole cancellare
Non dovremo dimenticare questo sabato 14 settembre in cui in un’aula di giustizia si è svelata con cristallina evidenza quale sia la posta in gioco in un processo che ha quale suo imputato un ministro e vicepremier della Repubblica. Perché quella posta in gioco interpella e definisce la qualità di una democrazia

(di Carlo Bonini – repubblica.it) – Non dovremo dimenticare questo sabato 14 settembre in cui in un’aula di giustizia si è svelata con cristallina evidenza quale sia la posta in gioco in un processo che ha quale suo imputato un ministro e vicepremier della Repubblica. Perché quella posta in gioco interpella e definisce la qualità di una democrazia. Parliamo del principio di legalità, presidio ultimo dell’intangibilità dei diritti fondamentali della persona e dunque argine alla discrezionalità della politica. A maggior ragione quando declinata, come nel caso dei migranti sequestrati a bordo della nave Open Arms, con ottusa ferocia e sciagurata tracotanza.
Ecco perché l’importanza di questo processo e del suo esito (che resta evidentemente solo e soltanto nelle mani del collegio giudicante) prescinde persino dal suo imputato e dall’entità, pur assai significativa, della pena richiesta. Quel Matteo Salvini che ha tentato di trasformare un giudizio penale in un’ordalia a uso politico, di cui potersi dichiarare evidentemente martire in caso di condanna.
Ed ecco perché va dato atto alla Procura di Palermo, al suo procuratore capo Maurizio De Lucia, alla procuratrice aggiunta Marzia Sabella e ai due sostituti Geri Ferrara e Giorgia Righi di aver istruito e con coraggio portato a termine questo processo avendo un’unica bussola. Quella che durante la lunghissima requisitoria di ieri è risuonata nell’aula di Palermo con disarmante semplicità. «L’obbligo del soccorso in mare viene dall’Odissea, da tempi ancestrali. Persino in guerra c’è l’obbligo del salvataggio in mare a conferma dell’universalità dei beneficiari. In questo processo affrontiamo il tema dei diritti dell’uomo, la vita, la salute e la libertà personale che prevalgono sul diritto a difendere i confini».
Non siamo di fronte a principi negoziabili, evidentemente. E che non lo comprenda o finga di non comprenderlo Matteo Salvini è tutto sommato figlio del suo cinismo, del suo diritto di imputato di difendersi come meglio ritiene e della spregiudicata postura con cui, in questi anni, ha interpretato il suo ruolo di ministro dell’Interno prima e di ministro delle Infrastrutture e vicepremier oggi. Più grave è che la non negoziabilità dell’obbligo del soccorso in mare e della difesa di una vita umana in pericolo sia liquidata con argomenti da comizietto dalla Presidente del Consiglio che, ancora una volta, non solo dimostra di essere priva di qualsiasi cultura istituzionale ma persino digiuna di elementari nozioni di diritto. Sostenere, come ha fatto, che la Procura di Palermo «ha trasformato in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale» è un’enormità che dimostra a quale punto di manipolazione Giorgia Meloni è disposta a torcere il discorso democratico, prima ancora che politico. E chi sa cosa penserebbe Paolo Borsellino (le cui fotografie, per inciso, arredano il corridoio che porta agli uffici del Procuratore di Palermo) nell’ascoltare queste parole dalla donna che ha sostenuto di aver scelto giovanissima l’impegno politico proprio in nome del suo sacrificio.
La verità — qualunque dovesse essere l’esito di questo processo — è che per Giorgia Meloni, per la destra di cui lei e il suo governo sono espressione, è intollerabile che da un’aula di giustizia di Palermo, dei magistrati della Repubblica, in forza e nel nome della Costituzione cui anche Giorgia Meloni ha giurato fedeltà, abbiano ricordato che la politica non è legibus soluta. Che il populismo sovranista, in tutte le sue diverse declinazioni, e a qualunque latitudine (non è un caso che il trumpiano Musk abbia avvertito l’urgenza di dire volgarmente la sua sui magistrati di Palermo), non è immune dal controllo di legalità. A meno di non voler manomettere la natura, la forma e il sistema di controllo e bilanciamento di una democrazia, trasformandola in una democratura.
Naturalmente, che tutto questo avvenga sul terreno delle politiche migratorie è circostanza tutt’altro che neutra. E non solo perché in questo processo, nelle vicende che ha ricostruito, uno dei convitati di pietra è stato, sul piano della responsabilità politica, l’attuale ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. O perché il destino politico dell’imputato Matteo Salvini potrebbe uscirne definitivamente compromesso. Ma perché è emersa una semplice evidenza con cui qualsiasi politica migratoria, di qualunque segno politico, deve e dovrà fare i conti. Il rispetto dei diritti fondamentali della persona, della legge del mare, del diritto e delle convenzioni internazionali.
Questa destra di governo farebbe bene a tenerne conto. E con lei l’infernale macchina della propaganda che su una delle più grandi sfide globali del nostro tempo — le migrazioni dal Sud del mondo — ha contribuito a ingrassare la paura dell’opinione pubblica sequestrandone la discussione e l’intelligenza. Rendendola più feroce e insieme cinica. Come se il bollettino quotidiano dei morti nel Mediterraneo non ci interpellasse. E la soluzione si riducesse a rendere impossibile il lavoro delle navi soccorso delle Ong o costruire hotspot oltremare in cui parcheggiare un’umanità considerata di risulta. Ma naturalmente non lo farà. Sceglierà la strada più semplice. Che è facile indovinare, se il buongiorno si vede dal mattino. Aggredire il coraggio dei magistrati di Palermo, manipolarne le intenzioni e prepararsi a scrivere un altro capitolo della vendetta su ciò che resta dei presìdi del controllo di legalità nel nostro Paese.