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L’Europa incompiuta di Spinelli si realizza attraverso un carro armato

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Si intravedono gli «Stati uniti del tank», tenuti insieme dalla volontà di costruire armi e da una difesa «necessaria». Il paradosso è che quello che unirà veramente il Continente non saranno pace e diritti, ma l’industria militare

Le rovine della città ucraina di Vovchansk, regione di Kharkiv, a 5 chilometri dal confine con la Russia

(Domenico Quirico – lastampa.it) – Sì, è vero, ci siamo sbagliati. Spieghiamoci lealmente: perché probabilmente non si è chiuso un capitolo, si è chiusa una Storia. Son troppe le cose che si intravedono in filigrana rispetto a quelle che si vedono di acchito. Guerre e crisi rovesciano sempre le gerarchie delle evidenze e anche delle utopie. L’Europa, ahimè!, perennemente incompiuta di Spinelli e Schumann si realizzerà dunque attraverso il carro armato, il missile, il caccia intercettatore, il drone? Si intravedono gli Stati uniti del tank! Costruire insieme armi sbaraglierà le barricate dei pestiferi egoismi e sovranismi? Il business comunitario della Difesa, astuta metafora, sembra essere la nuova frontiera che non conosce ostacoli, solo cifre, risultati e incassi. Si levano gli esegeti: la storia è cambiata, l’odio lussureggia, nel continente cozzano e si impattano furori, spedizioni punitive, aggressioni. Siamo al corpo a corpo abituale, bisogna difendersi. Se poi questo arrotonda i conti capitalistici, rilancia l’economia meglio ancora.

Vi sono periodi in cui gli uomini vivono in una sorta di sicurezza istintiva, come se avessero una certezza che ha una influenza diretta sulle loro vite personali. Fino allo sciagurato 24 febbraio del 2022, all’attacco russo all’Ucraina, in questo continente il “momento storico” sembrava consolidato: il nostro destino non sarebbe più cambiato. La crudeltà sembrava non appartenerci più dal 1945 in poi. L’abbiamo riadottata.

Cosa era questa forza che ci permetteva di ascoltare il rombo dei cannoni nella notte del resto del mondo con una sorta di compiaciuta soddisfazione? Armamenti implacabili irraggiungibili per i nemici? Trabordante superiorità tecnologica e industriale? Raffinatezza diplomatica capace di metter nel sacco i nemici più rozzi? Era la constatazione orgogliosa che unendoci, sopprimendo memorie di sangue avevamo sconfitto la guerra, eternizzato la pace tra di noi. La lotta senza pietà, generazione dopo generazione tra francesi e tedeschi che aveva insanguinato in due guerre mondiali la storia del mondo era finita. Sul Reno era l’era della pace. Siamo tutti europei! Una sfida, un modello di redenzione dai fili spinati delle prepotenze armate, quella che doveva diventare una sacrosanta sobillazione per tutti. Anche i popoli non solo gli individui sono dunque disposti al rimorso. Il ruolo dell’Unione europea non era quello di appartenere al tempo salvandosene, non rinunciando a mutarne la parte che ti compete, gridare che si può reggere alle raffiche del vento storico senza picche e cannoni con la diplomazia, i diritti, la ragione? Non pavidi e imbelli certo, ma depositari scomodi e tenaci di un irreversibile convincimento fraterno.

Sniffiamo dal 1945 gli effluvi della nostra diminuita potenza di fronte ai nuovi imperialismi americani, sovietici e putiniani, cinesi, ormai contiamo solo per la rapidità con cui mettiamo mano al portafoglio comunitario, l’unione resta in molti campi decisivi più forma che sostanza, ognuno conservando con arcigna avarizia le sue differenze i suoi egoismi. La lingua franca è quella di un Paese che dall’Europa è uscita con gran vanto e fracasso… Ma… Ma c’era quella parola istitutiva, fondante, pace, dopo aver incendiato il mondo con vele e cannoni; e i suoi seguiti pratici, la fine della coscrizione obbligatoria in tutti i Paesi, l’industria delle armi che certo continuava lucrosi affari ma almeno nascondendosi tra ipocrisie e slogan rassegnati: se non li vendiamo noi le vedono altri…

Siamo al paradosso, l’unguento miracoloso che unirà finalmente davvero l’Europa non saranno i diritti, le lezioni dei padri fondatori, vincoli fiscali legali educativi: sarà l’integrazione del complesso militar-industriale, nemico fuori portata di tutti i volenterosi pacifismi.

Si marcia a tutto vapore, via via che la vittoria su Putin si rimanda, si fa più incerta. Commissari europei hanno fatto da battistrada fustigando il ritardo nella costruzione di una “economia di guerra”; poi gli economisti, i manager, i sacerdoti del profitto orfani della globalizzazione hanno fornito cifre progetti pianificazione. La spazio che il piano Draghi per salvare l’Europa dedica alla creazione della gigantesca industria militare comune ne è la consacrazione concettuale, quasi teologica. Poche settimane è la parola d’ordine: armiamoci “made in Europe” è diventata citazione aristotelica al don Ferrante. Non insorgono onde di obiezione civile, nessuno sembra invaso dall’acre disagio di questa eventualità. Le destre si affannano a non restar indietro rispetto alle sinistre nel vecchio dilemma tra burro e cannoni. Ma non bastava difendere l’Ucraina? Non eravamo impegnati a spada tratta semmai a difendere il Pianeta moribondo?

Non si allude, si constata in modo asciutto: in bombe in spendiamo poco e soprattutto spendiamo male. Ognuno corre dietro al suo carro armato, ci facciamo concorrenza, mentre i grandi, Usa Russia Cina, pianificano standardizzano e vendono. Eccola la greve paroletta che spunta nel discorso del presidente di una eccellenza italiana nel campo: si deve efficientare! Altro che due per cento del bilancio a cui molti tra cui l’Italia con ottusa avarizia recalcitra: almeno il tre per cento è cosa fatta, indispensabile.

Colpisce che la minaccia russa sfumi sullo sfondo di un discorso tutto economico, suvvia nessuno crede davvero che Putin che avanza come una lumaca da più di due anni contro gli ucraini abbia davvero la possibilità di lanciare le sue divisioni peste e sgangherate verso Berlino, Parigi... La vera garanzia per l’Europa resta sempre quella, l’arsenale dei megatoni americani, la reciproca possibilità dell’inverno nucleare come ai tempi di Kennedy e Kruscev. È tutta una faccenda di soldi, di arraffare un gigantesco affare. Mentre si chiudono le catene di montaggio delle automobili e si raddoppiano quelle dei Leopard corrazzati, e i politici provvedono a ridisegnare le carte delle nuove frontiere dove i buoni si dividono dai cattivi, il manager sintetizza siccitoso: «Ce ne sarà abbastanza per tutti».


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