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Il patteggiamento, Giovanni Toti, Matteo Salvini e la schiforma Cartabia

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(Stefano Rossi) – Giovanni Toti ha chiesto di concordare la pena con il P.M., spiegando che non è un’ammissione di colpevolezza.

Matteo Salvini ha detto che lui non patteggia.

Come sempre, la classe politica dimostra di essere avulsa dalle leggi italiane.

Matteo Salvini è il peggio.

Il processo è giunto alla fine. Manca solo la discussione della difesa e poi la sentenza.

L’applicazione della pena su richiesta, ex art. 444 c.p.p., si può chiedere prima dell’apertura del dibattimento a pena di decadenza. Arrivati alla fine del processo sarebbe folle parlarne.

Anche Giovanni Toti, sbaglia.

Vediamo perché.

Se l’imputato chiede ed ottiene di concordare la pena, la parte civile (il danneggiato dal reato) non ha alcun ristoro in sede penale (il processo finisce prima di cominciare) ma può rivolgersi al giudice civile per il risarcimento del danno patito.

Ora, nella sede civile, che effetti ha la sentenza emessa ex art. 444 c.p.p.?

Cioè, se l’imputato patteggia, ammette la responsabilità?

La Corte di Cassazione Civile si è più volte interessata di rispondere a questa domanda ma le risposte sono molteplici e non sempre univoche.

Il principio più diffuso, e forse il più corretto, è che la sentenza non inverte l’onera della prova (è sempre a carico dell’attore-danneggiato provare il danno subito) e che, aver richiesto il patteggiamento, non è prova della responsabilità ma solo un indizio che deve essere valutato dal giudice insieme ad altri indizi (e devono essere gravi, precisi e concordanti). Così, Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 7014/20.

Ci sono altre sentenze con le quali si è enunciato il seguente principio: “… va riconosciuta la natura di elemento di prova di cui il giudice civile può tener conto, non essendogli precluso autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte nel processo penale definito con la sentenza di patteggiamento, nonostante sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in ragione dell’assenza di un principio di tipicità della prova nel giudizio civile” (così: Cass. Civ., Sez. III, n. 3100 del 7 novembre 2023).

In un’altra sentenza, i giudici di legittimità sono andati oltre: “… ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistenza responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione, con la conseguenza che, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, esonera la controparte dall’onere della prova, presupponendo pur sempre un’ammissione di colpevolezza” …”.

Nel processo civile vige il principio secondo cui, il giudice, può decidere incidenter tantum, sui fatti emersi in sede penale. Anche quelli relativi alle indagini preliminari, e i documenti, sono tutte prove o indizi che devono avere un valore probante che il giudice saprà come valutarli.

Orbene, nel 2022, è intervenuta quella pazzoide e orripilante riforma che porta il nome dell’allora ministro dell’in-Giustizia, Marta Cartabia, del governo Draghi.

Quando sentite dire che erano quelli bravi, ricordate che, questa schiforma, ha previsto in modo capillare e minuzioso che: “non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile” (art. 445, comma I, bis, c.p.p.). Ma in modo rocambolesco ed errato, sul piano della costruzione grammaticale, il comma prosegue dopo il punto: “Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna”.

Ci sono voluti parecchi mesi, convegni, riunioni, commenti nelle sterminate riviste di diritto, per capire che, forse, il condizionale è sempre d’obbligo, che solo se non vengono applicate le pene accessorie, la sentenza di condanna di patteggiamento non ha effetti su tutti gli altri processi, escluso quelli penali.

Giovanni Toti, per sua sfortuna, è stato condannato pure alle pene accessorie.

Tradotto, si può dire che il suo concordato è una ammissione di colpevolezza!

Ma noi ci siamo abituati alla politica corrotta e alle nefandezze di chi dovrebbe amministrare la cosa pubblica nel bene della collettività anziché per fini personali o di pochi eletti, quello che rimane, ora, è la nefandezza della schiforma Cartabia.

Quando ci sono i reati, c’è spesso una vittima e, quindi, un diritto al risarcimento del danno.

Immaginate che, Mattarella ha firmato senza fiatare, Cartabia, fine giurista, la quale, è stata chiamata per scrivere una riforma non per migliorare la giustizia ma per limitarla e bloccare il maggior numero possibile di processi, è andata a limitare gli effetti di questa sentenza condannando tutti i danneggiati dai reati che non potranno avvalersi dei suoi effetti, in sede civile, amministrativa, contabile e tributaria.

Si sono dimenticati, però, un principio cardine nel diritto italiano: la netta separazione tra il processo civile e quello penale esplica il principio della perfetta autonomia, codificato nell’art 75 c.p.p..

Il giudice civile potrà sempre valutare se una prova o un fatto o documento o indizio, emersi in sede penale, possano avere una qualche rilevanza come prova o indizio in sede civile (artt. 34, 2043 fino al 2059, 2087, 2947 Codice Civile; art 185 c.p., per citarne alcuni).

A meno di voler dire che, la “Cartabia”, abbia voluto abrogare tacitamente metà dell’ordinamento giuridico italiano.

E magari ci avranno pure fatto un pensierino.


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