
(di Michele Serra – repubblica.it) – Se imparassimo meglio a vivere, e a raccontare la vita, il processo di Maysoon Majidi a Crotone avrebbe la stessa importanza, lo stesso rilievo mediatico di quello del Salvini a Palermo. Come tutti, non sapevo nemmeno che Maysoon esistesse: ho appena imparato il suo nome dal racconto di Fabio Tonacci su Repubblica. È un’attivista curda, scappata dall’Iran così come le donne scappano dalla loro schiavitù. Avrebbe ogni diritto allo status di profuga politica, invece è in galera da nove mesi. Sbarcata avventurosamente in Calabria è stata scambiata per una scafista. Sarebbe bastato che qualcuno la ascoltasse per davvero (ma ci vogliono interpreti ben preparati, tempo e attenzione, ci vuole la volontà politica di considerare gli immigrati persone, una per una, non una massa da stoccare all’ingrosso) per accorgersi dell’equivoco.
La mancanza di mediazione culturale, a tutti i livelli, è uno dei grandi problemi che gravano sull’immigrazione in Italia. Capirsi è tutto, o quasi. Non capirsi è il pozzo nel quale si cade, tutti insieme, se manca uno scambio vero. Anche minimo, momentaneo, ma vero. Nel quale le parole, le intenzioni, le singole storie, le leggi del luogo dove si sbarca, abbiano un peso e un senso. Non biasimo chi ha commesso gli errori (una serie di errori: di accoglienza, di valutazione e di giudizio) che hanno rinchiuso Maysoon, innocente, per quasi un anno. Non solamente i migranti, al loro arrivo, anche chi li accoglie è spesso solo e impreparato. E per sovrammercato, anche malpagato. Dico solo che l’ignoto processo di Crotone e quello, famosissimo, di Palermo, raccontano la stessa storia: non capire, o non voler capire, perché arrivano quelli che arrivano. Qualcuno per rubare. Moltissimi per vivere.