Già a 28 anni, sotto lo sguardo di Khomeini, faceva parte della commissione della morte. Ritenuto il delfino della Guida suprema, ha eliminato dal Paese i prigionieri politici

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – Nella loggia dei busti post khomeinisti che posizione ha (o aveva se l’incidente di elicottero tra le torve montagne al confine azero risulterà fatale) Ebrahim Raisi? Provate un po’ a tracciare la carriera e le aggrovigliate attraversature di uno che nella gran brutta banda di una classe dirigente assiro babilonese è soprannominato «il boia». Andatura goffa e natura brutale, abbiam davanti un intrattabile Vishinsky islamico, un prepotente Fouquier-Tinville nel nome di Allah, specializzato a sotterrare nelle implacabili pieghe esclamative delle sentenze chiunque abbia l’apparenza di voler addolcire il regime o rimminchionirlo nel tran tran del Dopo rivoluzione. Insomma è, od era, un artista giudiziario del delitto disciplinare e sacrosanto.
Certi nomi, saltandoci addosso all’improvviso spalancano di colpo finestre sul secolo crudele. Dalle sue sentenze implacabili esce l’alito di un’epoca e le pessimistiche previsioni su quello che incombe. Che c’è da attendersi sugli scenari internazionali da uno che a 28 anni, correva il 1988, sotto lo sguardo implacabile di Khomeini già era nel sinedrio della «commissione della morte»? Bisognava ripulire le prigioni ingombre di cinquemila prigionieri politici in maggioranza “Mujahedin del popolo’’, artisti della dinamite ribelle, furbi ma primitivi. Missione eseguita a puntino fino all’ultimo uomo in trentadue città. Così il patto di sangue con l’Imam non consentì più ai discepoli pentimenti.
Che aspettarsi sul dossier nucleare iraniano dalla bestia nera di tutte le organizzazioni umanitarie, incriminato dagli Stati uniti come complice di gravi delitti? In caso di sempre possibili distensioni con Teheran sarebbero necessarie con lui dosi di ipocrisia e realpolitik ben più robuste di quelle che hanno indotto a stringere le mani ai talebani.
Raisi non sbuca dalle famiglie dei ricchi cardinali dello sciismo, dai circoli bene dei sant’uomini del Potere. È figlio di poveri, ha le zimarre sgualcite del basso clero. Forse la spiegazione di molti eventi è lì, in quella voglia di ascesa che sceglie astutamente la via della giurisprudenza islamica, un ayatollah che scala gli scranni dei tribunali rivoluzionari, fino a diventare procuratore generale. Piace la sua durezza contro ogni sacrilegio eversivo ad Ali Khamenei, guida suprema senza avere i galloni religiosi; e piace ai pasdaran sempre sospettosi di leader che per loro sono “chol”, molli. Raisi è la folgore giudiziaria dell’ala dura del regime e soprattutto degli ambiziosi e sempre più potenti bracci pretoriani, i guardiani della rivoluzione. Dietro la mistica del Canone marciano gli armigeri del potere. Raisi indaga incrimina condanna. I pasdaran arrestano imprigionano torturano uccidono. E dal seggio del Tribunale speciale dei religiosi che ha guidato per venti anni, lui controlla la fedeltà estremista, la purezza degli alti dignitari e giù giù fino a quella dei piccoli mollah di paese. Provate a scrivere la storia della Repubblica islamica senza il Grande Inquisitore!
Avevano grandi ambizioni, lui e Sepah, l’armata, gli energumeni del demagogismo islamista. Per reciproca necessità. Perché i pasdaran senza l’autorità religiosa non sono niente. Ma senza di loro il potere, perfino quello della Guida suprema, è fragile. È al riparo di questo accordo che i Guardiani con metodo sono progrediti verso la loro meta, diventare autosufficienti. Approfittando delle privatizzazioni modello Ahmadinejad controllano ormai oltre il trenta per cento (qualcuno dice il cinquanta) della economia a cui si aggiunge il contrabbando che comprende il sofisticato sistema di esportazione clandestina di petrolio e il traffico del eroina alla frontiera afghana.
Quello che i Guardiani non vogliono è che al potere vadano i pragmatici, disposti a dialogare anche con l’Occidente. Per questo hanno sostenuto apertamente Raisi già nelle presidenziali perse del 2017. E poi, con successo, nel 2021. Per rendere popolare “il boia” fecero risorgere anche il generale Soleiman, condottiero del sogno della mezzaluna sciita, “martirizzato’’ dagli americani: affiancando il vivo e il morto sugli innumerevoli manifesti elettorali. Raisi vinse perché i rivali erano stati eliminati preventivamente e perché aveva il controllo di una fondazione religiosa a Machad, dove accorrono ogni anno venti milioni di pellegrini e i cui introiti sono esentati per legge dalla imposte.
Eppure fu umiliato da un misero 60% dei voti, bocciato da più del 50% di iraniani che votarono con il boicottaggio; a cui si aggiunsero quattro milioni di schede bianche o nulle. Una popolarità dunque che non sembrava aver raggiunto torbide temperature.
Ma il presidente non conta molto, pur essendo la seconda carica del Paese. Il piano era afferrare la successione della Guida Suprema, un ottantenne ormai debole e malato: quello è il vero Potere. Da lì si può realizzare il passaggio dalla Repubblica islamica allo Stato islamico come vogliono i pasdaran che richiede la repressione implacabile di una generazione, eroica nello sgolare le orazioni rivoluzionarie. Si defilava già un rivale pericoloso, Mojtaba Khamenei, uno dei figli della Guida suprema, che ha con metodo iniziato negli “arcana imperii’’ di Teheran a disfare le alleanze di Raisi con le numerose anime dei pasdaran. E a tessere la sua tela.