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Libertà e limiti nel manifestare il proprio pensiero

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Cuochi e diffamazione.

(Stefano Rossi) – Il caso Cracco-Ottaviani meriterebbe un approfondimento che, in assenza della sentenza, sarà limitato ma può aiutare chi scrive recensioni su Trip Advisor e altri social al fine di conoscere i limiti del diritto di cronaca.

Nel giugno 2023, Achille Ottaviani, giornalista, ex senatore della Lega, ex sindaco di Soave, si toglieva la vita dopo diverse amare delusioni, dal giornalismo e da alcune vicende giudiziarie.

I fatti.

I fatti risalgono al 2016, quando, su “La Cronaca di Verona”, Ottaviani scriveva: “Menu, qualità del cibo e relative mescolanze sono state per la gran parte dei 400 vip invitati una delusione. Il commento più buono reso è stato “migliori le patatine San Carlo di cui Cracco fa da testimonialTutti alla fine se ne sono usciti delusi, un po’ affamati e tentati di entrare nei kebab limitrofi … risotto insipido, carne dura, verdure che non vi si abbinavano, se non nella follia di una grandeur culinaria che non è esistita”.

Si trattava di un evento organizzato da Vinitaly, all’Arena di Verona, per il quale era stato chiamato lo chef Cracco, il quale, presentò una denunzia per diffamazione.

Nel 2017, il P.M. chiedeva l’archiviazione che il giudice, nell’udienza preliminare, respinse.

Ottaviani esultò troppo presto, pensando che l’indagine venisse archiviata, con questo articolo: “La stella di Cracco da allora è in caduta verticale. Il grande chef non fa più opinione ne ascolti e la guida Michelin fresca di stampa, toglie una stella al suo ristorante di Milano e ridimensiona il cuoco e giudice televisivo che ormai si era convinto di essere “Re Sole” della padella … a differenza del dio “Cracco”, evviva quindi: PERBELLINI, IL DESCO, LA VERANDA, OSELETA, LA VECCHIA MALCESINE, alla faccia dei cuochi montati e alla loro inutile arroganza”.

E Cracco presentò una seconda denunzia per diffamazione aggravata.

Si incardinarono due processi, incredibilmente non riuniti; il secondo finì prima del primo.

Fu condannato a pagare somme assai elevate (€ 1.000 nel secondo processo; € 20.000- €10.000 nel primo).

Norme e diritto.

Art. 19, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948.

Art. 10, CEDU: “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”.

Art. 11, Carta di Nizza.

L’art. 21, Costituzione tutela il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (ripreso anche dall’art. 1 St. Lavor.) e, il diritto di critica, il quale, è più ampio rispetto al primo. La cronaca mira ad informare. La critica non deve informare ma, attraverso di essa, si danno giudizi e opinioni su persone o fatti accaduti.

Artt. 2 e 3, Costituzione e artt. 594 e 595 c.p., tutelano l’onore e la reputazione delle persone, sia come singolo, sia nei confronti della collettività.

Art. 10, c.c.: “L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico di cui la persona danneggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia fornito la prova”.

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Spesso, i diritti, entrano in conflitto tra loro, spetta ai giudici dirimere le controversie, andando ad individuare quali di essi deve prevalere.

In questi casi, è noto, chi esprime un’opinione o una critica, invoca l’art. 21 della Costituzione; chi si ritiene offeso, invoca le norme che trattano la difesa dell’onore e reputazione della propria immagine.

Nel 1984, la Corte di Cassazione emanò diverse sentenze, una a Sezioni Unite e, la n. 5259, del 18 ottobre 1984, della I Sezione Civile, meglio nota come sentenza-decalogo sulla libertà di stampa, con le quali sono stati individuati i limiti al diritto di cronaca oltre i quali si risponde di ingiuria o diffamazione.

  1. Utilità sociale.

Più la notizia è utile, sul piano sociale, più rileva come scriminante, anche in riferimento all’art. 51 c.p.. Si pensi ai casi in cui viene lesa la riservatezza di una persona o vengono divulgate informazioni su dati sensibili (il caso recentissimo di un candidato alle elezioni che informa gli elettori che, un candidato avversario, è gravemente malato).

  1. Verità della notizia.

Si legge, nella sentenza citata n. 5259: “La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato”.

In questi casi, gli ermellini, hanno definito, la verità, più pericolosa in quanto può facilmente suggestionare o trarre in inganno i lettori.

  1. Continenza.

Non solo deve essere vera la notizia ma rileva anche il “come” viene riportata.

Conta l’esposizione, la forma e gli aggettivi scelti.

Serve una forma civile; non si deve calpestare: “quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto”.

Non si deve fare uso di

a) al sottinteso sapiente”. Si usano forme o parole, in modo da farli intendere in “maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale”.

b) agli accostamenti suggestionanti”. Tipico caso è quello di accostare fatti, o persone, estranee ai fatti narrati con giudizi o espressioni riprovevoli.

c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato … all’artificiosa e sistematica drammatizzazione”.

d) alle vere e proprie insinuazioni”.

Sempre nel 1984, la Corte di Cassazione Penale, disponeva che: “l’esercizio legittimo del diritto di cronaca – anche sotto il profilo putativo – non può essere disgiunto dall’uso legittimo delle fonti informative”.

Quindi, esaminare le fonti e la veridicità della notizia e dare prova di questo riscontro.

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In assenza della sentenza, possiamo solo analizzare, in parte, il ragionamento del giudice con il quale rigettava la richiesta di archiviazione per il giornalista Ottaviani.

Su Dagospia si legge: “Il giudicante ritiene che il richiamo a fonti generiche, vaghe e sostanzialmente impersonali, non controllabili, assimilabili alla vox populi, non rispetti il primo dei limiti al quale è condizionato il diritto di cronaca e di critica”.

Per esempio, nell’articolo incriminato, si diceva che, alla fine della cena, molti commensali, non avendo mangiato, sono ricorsi ad un vicino locale per un kebab.

Non vi è prova, non vi sono testimoni, nomi, fotografie, dichiarazioni di altri commensali al di fuori dello scrivente.

Pertanto, questa parte dell’articolo non attiene né alla cronaca, né alla critica.

Non è cronaca in quanto non vi sono prove che alcuni commensali non abbiano mangiato e poi sono dovuti ricorrere ad un kebab.

Non è critica perché, questi fatti, riguardano altre persone che sono rimaste del tutto ignote ed estranee ai fatti.

Umanamente può dispiacere per quello che è capitato al povero Ottaviani.

Molte sentenze liquidano questi danni con somme irrisorie.

Credo sia un caso inedito. È la prima volta che un articolo (recensione?) su come cucina un cuoco famoso viene portato in tribunale.

Per chiarire, almeno la parte sul risarcimento, le somme inflitte al giornalista Ottaviani riguardavano la parte penale. Non sappiamo se venne chiesto l’intero danno o solo una provvisionale (risarcimento parziale). In sede civile, si può chiedere il risarcimento dei danni ma bisogna provare il nesso causale e la decurtazione economica prodotta proprio dalla diffamazione subita.

Prova non facile da dimostrare.

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Concludo con una storia passata dai risvolti più allegri.

Indro Montanelli definì Ciriaco De Mita “padrino” e venne querelato.

Il giorno dell’udienza, Montanelli si presentò in aula. Cercò di entrare nella gabbia dei detenuti pericolosi ma era chiusa. Una folla lo cercava, acclamava, chiedeva autografi, fotografie anche se all’epoca non esistevano i selfie (bei tempi!).

Spiegò a modo suo. Disse che la politica e la malavita avevano tratti comuni e, quindi, era normale che il giornalismo si impossessasse di quel termine.

Applausi, urla di giubilo della folla.

E poi l’immancabile frecciatina alla parte lesa: “Se avessi detto la stessa cosa ad Andreotti, Andreotti mi avrebbe mandato un telegramma: “Caro compare, siamo d’accordo”.

Venne condannato a pagare la somma di un milione.

Del vecchio conio, però.

Chissà, se De Mita fosse stato un grande chef avrebbe ottenuto di più…


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