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La Rai in guerra: i cronisti al fronte, la politica in casa

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(di Giovanni Valentini – ilfattoquotidiano.it) – Non è una sfida alla Russia, il nostro lavoro è documentare. Mosca non ha l’autorità di dire che cosa i giornalisti possono fare in zona di guerra
(Lorenzo Cremonesi, inviato speciale del Corriere della Sera – 9 ottobre 2024)

È stata una settimana di fuoco per la Rai, per i suoi giornalisti e le sue giornaliste, per tutti i corrispondenti di guerra. Prima, il mandato di arresto e la richiesta di estradizione emessi da Mosca contro l’inviata del Tg1 Stefania Battistini e l’operatore televisivo Simone Traini, rei di aver attraversato il confine russo per documentare la controffensiva delle truppe di Kiev: “Una persecuzione nei confronti della libertà di stampa”, come l’ha definita il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, unendosi al coro delle reazioni e delle proteste. Poi, l’aggressione in Libano a un’altra troupe della Rai, formata dalla collega Lucia Goracci, dall’operatore Marco Nicois, dalla fixer Kinda Mahaluf, addetta a stabilire i contatti con le autorità locali, e dall’autista-interprete libanese Ahmad Akil Hamzeh stroncato da un infarto.

Basterebbe l’assurda fatwa a carico di Battistini e Traini per dimostrare il carattere autoritario e repressivo del regime di Mosca, contro la libertà d’informazione e il diritto internazionale. Un Paese che due anni fa – dietro l’alibi di una “operazione militare speciale” – ha invaso un altro Paese con i carri armati, adesso si risente perché una troupe tv valica i suoi confini con le telecamere per riprendere un fatto di cronaca e registrare uno scoop mondiale. E così Putin decreta una pericolosa “caccia ai giornalisti”, mentre si apprende che la giovane cronista ucraina, Victoria Roschchyna, 28 anni, catturata il 3 agosto nei territori orientali occupati, è morta nel carcere russo in cui era detenuta.

È un ircocervo in guerra tra due fuochi – quello “amico” dell’occupazione politica e quello nemico del rischio bellico – la Rai che oggi si dibatte nelle sue genetiche contraddizioni. Da una parte, una capacità di fornire – nonostante tutto – un’informazione di guerra puntuale e corretta, secondo i doveri del servizio pubblico; dall’altra, una subalternità cronica alla partitocrazia. Prova ne sia anche il fatto che la maggioranza di centrodestra diserta per due volte la riunione plenaria della Commissione di Vigilanza, non avendo i voti per eleggere il presidente del Consiglio di amministrazione appena insediato e già virtualmente “fuorilegge”, perché non rispetta il Media Freedom Act europeo in materia di pluralismo e indipendenza dei mezzi d’informazione. E mentre contesta la scelta dell’Aventino sul Cda della Rai decisa da una parte delle opposizioni col Pd in testa, la stessa maggioranza fa il contro-Aventino non solo in Vigilanza, ma perfino votando scheda bianca nell’elezione di un nuovo giudice costituzionale per il timore di non riuscire a imporre il suo candidato nel segreto dell’urna.

In tutto questo, colpisce che un “artista” come Bruno Vespa abbandoni per protesta la festa per i 100 anni della Rai. E lamenti, come ha spiegato a Dagospia, una “mancanza di rispetto” nei confronti del suo programma Porta a Porta che non è stato citato dall’azienda nel bouquet delle trasmissioni storiche. Non ha tutti i torti, in questa occasione, il veterano Vespa: piaccia o meno, il suo talk show s’inscrive nella storia del servizio pubblico. Ma il conduttore, invece di polemizzare con “l’anima profonda della Rai” che a suo parere “resta sempre dalla stessa parte”, dovrebbe fare un esame di coscienza. Lui da quale parte è stato in questi 30 anni? E da quale parte è tuttora? Quella del potere politico che, di volta in volta, controlla l’azienda pubblica o quella dei cittadini, abbonati e telespettatori?


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