Gli attivisti saranno chiamati a scegliere il suo destino. Le tre carte del garante

(di Emanuele Buzzi – corriere.it) – Rassegnazione no, amarezza sì. L’idea di una «estromissione» dal Movimento che ha creato, fondato e cresciuto insieme a Gianroberto Casaleggio è ancora uno scenario inimmaginabile, di sicuro non metabolizzato. L’ipotesi che sia proprio un referendum su di lui, con un voto online degli iscritti, a mettere la parola fine suona beffarda per l’ala Cinque Stelle che lo sostiene.
«Vedremo», dice Beppe Grillo a chi lo ha sentito. È certo il garante che la partita non sia chiusa e che, anzi, lui abbia più carte da giocare a sua disposizione. Eppure quel passaggio nero su bianco nelle proposte da portare al tavolo della Costituente, quelle tre parole, che prevedono «l’eliminazione» del ruolo del garante hanno lasciato il segno. Difficile immaginare una parabola simile.
L’ascesa
«La nostra forza è che non capiscono cosa facciamo, ma diamo fastidio a tutti. È la rete. Io ho messo la faccia e la mia vita. Noi siamo indistruttibili», urlava Grillo dal palco del teatro Smeraldo, a Milano, il 4 ottobre del 2009. La forza, quella forza evocata nel momento della fondazione del Movimento. nasceva dal V-day del 2007 — il vaffa di due anni prima — al mondo della politica, una piazza che raccolse centinaia di migliaia di firme in poche ore per un disegno di legge di iniziativa popolare sul Parlamento pulito. Grillo si immaginava così: «Io farò il presidente, credo, poi ci saranno una decina di voi, io voglio vedere la gente di 30 anni prendersi questo paese…».
E da lì iniziava un’ascesa incontenibile: conquistare l’Italia bracciata dopo bracciata, come quando attraversò lo Stretto di Messina a nuoto nel 2012 o quando riempiva le piazze dal Nord al Sud, nonostante il gelo invernale, per i comizi dello Tsunami tour. Così lanciò il Movimento in Parlamento, con il totem della democrazia diretta come faro per qualunque scelta (dai come spendere i soldi delle restituzioni a chi eleggere capo dello Stato).
I dubbi
Proprio l’ingresso nei palazzi, che dovevano essere aperti come scatolette di tonno secondo il credo della trasparenza movimentista, fece segnare una prima battuta d’arresto. Una «contaminazione», come ricordano i fedeli della prima ora, che lentamente ha eroso valori e battaglie. La morte di Gianroberto Casaleggio, nella primavera del 2016, improvvisa quanto dolorosa a causa di uno strappo mai ricucito, ha segnato un secondo punto di svolta. Grillo solo pochi mesi prima aveva annunciato la volontà di fare «un passo di lato».
Si ritrovava di nuovo catapultato in prima linea, diviso tra il ritorno al suo primo amore, il mondo dello spettacolo, e la necessità di portare avanti un progetto «rivoluzionario». Restò sospeso tra i due mondi. Già pochi mesi dopo Grillo ragionava sulla sua exit strategy e alla fine incoronò de facto Luigi Di Maio come suo successore. Da capo politico a garante, passando per la votazione della base sul nuovo leader. Un plebiscito annunciato. «Si apre una nuova fase di trentenni, di quarantenni. Io sarò il papà di tutti», disse a Rimini alla kermesse M5S del 2017. «Le decisioni importanti saranno prese dagli iscritti, ma io ci sono. Noi andiamo avanti».
Il paradosso
Sempre nel nome della democrazia diretta. Un pallino del fondatore che ora si trasforma in un paradosso. Perché con tutta probabilità gli iscritti a novembre saranno chiamati a scegliere se demansionare o abolire il ruolo del garante, quel ruolo da padre nobile che Grillo si è cucito addosso negli ultimi anni. E sarà proprio la Rete lo strumento con cui i suoi avversari proveranno ad affossarlo politicamente. Non a caso l’ala movimentista lamenta una mancanza di trasparenza nell’iter che sta conducendo all’assemblea. La Costituente invocata da Conte rischia di trasformarsi in un referendum sul fondatore, in aut aut tra i due volti più noti del Movimento. Grillo contro Conte. Lui che proprio nel 2021 aveva scelto, ironia della sorte, di proclamare l’ex premier nuovo leader ignorando la votazione della base, che si era espressa per un comitato direttivo.
Lo scontro
Ora tra i due è guerra aperta. E il presidente in una recente intervista a La Stampa ha liquidato l’idea di abolire il ruolo del garante con freddezza: «Voglio ricordare che tutte le questioni che verranno affrontate nascono dalla miriade di proposte e suggerimenti emersi dalla base del Movimento». In tre anni, il M5S ha cambiato pelle e facce. Non ci sono più i parlamentari di una volta, complice anche la ghigliottina imposta dal tetto dei due mandati che Grillo si è ostinato a mantenere come regola aurea dei Cinque Stelle. Così, ora, le truppe in Parlamento non lo conoscono e non si riconoscono in larga parte in lui. Sono lontani i tempi dei pellegrinaggi a Marina di Bibbona di deputati e senatori per evitare espulsioni o per decidere — come nell’agosto 2018 — le sorti del governo. Anzi, molti eletti ora si lamentano del contratto da 300mila euro annui che il Movimento ha firmato con il garante per dare un contributo a livello comunicativo.
Le carte
Ma proprio quel contratto rischia di essere la spada di Damocle nella contesa sia per Conte sia per Grillo. Strapparlo avrebbe conseguenze per entrambi. Da un lato farebbe venir meno a Grillo una remunerazione importante, dall’altro aprirebbe la via a ipotetici contenziosi. Il garante non è certo tipo da attese, da accettare passivo una eventuale «eliminazione». E ha almeno tre carte da giocare. La prima prevede — come da statuto — la possibilità di far ripetere eventuali votazioni da parte della base. La seconda: muovere battaglie legali, anche non in prima persona ma con attivisti a lui fedeli. Infine, contendere il simbolo del Movimento per poter riscrivere una storia che i contiani vedono come conclusa.