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La campagna d’Albania della Meloni è tutta fumo e poco arrosto

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La Libra in Albania con solo otto migranti ma nel centro vuoto si raddoppiano i posti. Diversi collettivi che già contestavano i centri di permanenza e rimpatrio si stanno organizzando a livello internazionale

La Nave della Marina Militare LIBRA al largo di Lampedusa, 1 agosto 2013. ANSA/GIUSEPPE LAMI

(Davide Carlucci – repubblica.it) – Shengjin (Albania) — Il numero dei migranti trasferiti si dimezza. Il centro di Gjader, invece, raddoppia. Mentre torna in Albania la nave Libra — l’arrivo è previsto tra oggi e domani — con soli otto naufraghi intercettati nelle acque internazionali al largo della Sicilia, il centro di permanenza italiano nel Paese delle Aquile si prepara a raddoppiare i suoi posti. Sono già al lavoro gli operai della ditta Camuna prefabbricati di Pisogne, in provincia di Brescia, che ha già realizzato i primi 400 moduli. Ma bisognerà arrivare a mille, in prima battuta, e poi a tremila posti, secondo i piani previsti dall’accordo tra Italia e Albania siglato esattamente un anno fa.

Una struttura spropositata

Di spazio intorno all’ex base dell’aeronautica militare ce n’è, tra le colline dove sono ancora visibili le aperture dei tunnel costruiti durante il comunismo e oggi murati. Ma la struttura appena realizzata appare spropositata, rispetto alle presenze: a un mese dall’apertura il bunker che esternalizza su suolo straniero i flussi migratori diretti verso l’Italia è rimasto vuoto per la maggior parte del tempo, accogliendo, per due giorni, un numero di ospiti pari al 4 per cento della capienza. Con i nuovi arrivi la percentuale scende al 2. Ma intanto camion e betoniere continuano incessantemente il loro via vai per ampliare ancora di più, nonostante le polemiche sui costi — calcolati intorno ai 900 milioni di euro — del “modello Albania”.

La contestazione

L’operazione è stata capace di stimolare la nascita di un network internazionale di contestazione ai centri di permanenza che si è dato un primo appuntamento ieri a Tirana e ha in programma una “carovana” a dicembre, coinvolgendo i leader italiani dell’opposizione, già contattati. «È un accordo mostruoso e disumano», accusa Detjon Begaj, consigliere comunale a Bologna, di origine albanese. Matteo Piantedosi non si scompone: «Il numero esiguo di persone sconta il fatto che la verifica delle vulnerabilità e delle condizioni che devono ricorrere sono molto severe e ciò comporta che il numero di migranti prelevati sia tarato per difetto più che per eccesso. Ci sono poi alcune decine di persone escluse perché hanno tirato fuori il documento d’identità per evitare il trattenimento».

Il ministro dell’Interno, in audizione al comitato parlamentare Schengen, si sforza di vedere il bicchiere meno vuoto di come lo guarda l’opposizione italiana: «Siamo alle comiche», dice per esempio Riccardo Magi di +Europa, mentre per Alfonso Colucci del M5S è «una presa in giro». Piantedosi si appiglia però all’effetto “deterrenza” che il nuovo sistema starebbe provocando in chi si imbarca dal Nord Africa per raggiungere l’Europa. Il capo del Viminale è certo che prima o poi la struttura sarà riempita. E si richiama al regolamento europeo sulle nuove procedure di frontiera, che «ha assegnato all’Italia l’obiettivo di realizzare al 2026 più di ottomila posti disponibili per il trattenimento e l’accoglienza dei migranti. Dobbiamo quindi predisporci per realizzarli».

Network against migrant detention

Il “modello Albania”, però, sta spingendo diversi collettivi che già contestavano i centri di permanenza e rimpatrio a organizzarsi a livello internazionale. Si incontrano in un parco nel centro di Tirana, brandendo cartelli nei quali chiedono “libertà di movimento per tutti”. “Centinaia di attivisti da tutta Italia e dall’estero hanno dato vita a Network against migrant detention – annuncia Igor Zecchini, della Rete “Mai più lager” di Milano – vogliamo combattere l’infamia della detenzione amministrativa e l’istituzionalizzazione del razzismo. C’è un forte salto repressivo del governo e dell’Europa. E noi vogliamo dare una risposta. Partiamo da qui oggi in Albania”. In prima fila c’è Kristina Millona, giornalista e ricercatrice albanese e attivista di Other Europe: “La nostra nazione è stata scelta come laboratorio per esternalizzare la gestione dei flussi migratori per un tempo molto lungo. Ma proprio gli albanesi sono tra i popoli che più continuano a subire le deportazioni. E non ci sentiamo in debito nei confronti dell’Italia, come dice il nostro presidente Edi Rama per giustificare l’accordo. Non dimentichiamo, semmai, che l’Italia ha imprigionato migliaia di rifugiati albanesi nello stadio di Bari, lasciandoli lì per giorni senza acqua né cibo. Non dimentichiamo la tragedia del canale di Otranto, quando l’affondamento della nave Katr I Rades causato dalla marina militare italiana causò la morte di 81 persone. Non dimentichiamo le nostre sorelle rapite in pieno giorno, spinte su gommoni e portate in Italia, dove sono state sottoposte a ogni forma di abuso e sfruttamento. Ora Rama vuole trasformare proprio l’Albania in un grande campo di concentramento per migranti? Noi non lo permetteremo”.

La mobilitazione

Altri militanti hanno preso il volo da Treviso. Arriva da Bologna, invece, Damiano Borin: “Se le sbarre hanno i colori dell’Unione europea è compito degli europei distruggere quelle sbarre”. Begaj punta il dito contro lo spreco di denaro “mentre non ci sono mai soldi per intervenire in soccorso dei minorenni, anche albanesi, non accompagnati”. E anticipano il prossimo incontro proprio qui, nella capitale albanese l’1 e il 2 dicembre: “Sarà una grande mobilitazione dal basso”.


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