Per sconfiggere i mulini a vento contro i quali combatte, la premier inventa la scorciatoia

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – «O la va, o la spacca». Meloni si gioca l’Italia così, alla roulette del casinò costituzionale. L’elezione diretta del premier, «madre di tutte le riforme», è assolutamente «necessaria» perché dà stabilità ai governi e sovranità ai cittadini. Dunque, par di capire, deve passare a ogni costo. In Parlamento, a colpi di maggioranza e a salti di “canguro” (al Senato il fido La Russa ha già mostrato le sue comprovate doti di domatore, neutralizzando i primi duemila emendamenti dell’opposizione). Nel Paese, a colpi di manganello e con una battaglia referendaria militante che non contempla prigionieri. In caso contrario?
Giorgia non resta lì «a scaldare la sedia»: lei, l’Underdog della Garbatella arrivata fino a Palazzo Chigi, non è tipo da restarci «a vivacchiare». Al Festival di Trento — seduta su un’altra poltrona comoda, di fronte a un’altra platea accomodante — la Sorella d’Italia traccia il solco che i suoi Fratelli sono chiamati a difendere. Si va avanti come una sola donna.
Nonostante le sue pseudo-riforme sfascino la nazione e stravolgano la Costituzione. Nonostante le sbandate sulla politica economica, la fiera delle gaffe dei Lollobrigida e l’affanno registrato dai sondaggi alla vigilia del voto del 9 giugno. Nonostante la destra tricolore continui a flirtare a vario titolo con la Feccia Nera delle peggiori destre europee, condannandosi all’irrilevanza sulle scelte future dell’Unione.
Anche sul palco trentino — come nel videocollegamento madrileno con i camerati neofranchisti di Vox — i toni sono più pacati. Ma non basta espellere i neonazisti di Afd, per ridare una “verginità” a quelle famiglie politiche figlie delle tragedie novecentesche. Il messaggio, grosso modo, è lo stesso di sempre: vincere, e vinceremo.
Quello meloniano è un format ormai collaudato. Sul fronte economico, cieco e bugiardo fino all’impudenza, nell’ignorare i problemi che incombono e nel manomettere le soluzioni che servono. La figura barbina fatta sul redditometro, prima varato per decreto e poi sospeso, non è occasione per un’autocritica: c’è un solo colpevole, l’apposito sottosegretario Leo, mentre la presidente del Consiglio — dal quale il medesimo Leo dipende — ne esce come la salvatrice della Patria che passava lì per caso.
È stata lei a sbarrare il passo al Grande Fratello fiscale, che nottetempo aveva ribussato alla porta dei contribuenti. Ed è un peccato, perché il ripristino di quello strumento, ovviamente riveduto e corretto, sarebbe stata la prima e unica misura seria varata in diciotto mesi per provare almeno ad arginare l’evasione.
Fesso chi ci ha creduto: come poteva farlo una premier che chiama le tasse «pizzo di Stato» e un governo che ha varato diciannove condoni, compreso l’ultimo sull’edilizia che un Salvini in preda a strani furori lisergici definisce addirittura «rivoluzione liberale»?
Il pasticciaccio brutto del Superbonus, prima sostenuto dall’intero arco parlamentare poi rinnegato da tutti, non è spunto per una drastica chiusura dei rubinetti ma solo per un fumoso rilascio di supercazzole: l’ineffabile Giorgetti spalma i costi su dieci anni invece che su quattro, e passa la paura. Tanto pagheranno i nostri figli.
Si potrebbe continuare, parlando per esempio dei bassi salari, che secondo Meloni sono ripartiti grazie a lei. Peccato che il taglio del cuneo fiscale e la decontribuzione per i neo-assunti, che lei chiama «nuove norme», le avessero già approvate e rinnovate almeno quattro governi prima del suo. E peccato che i rinnovi contrattuali, del cui sblocco lei si prende il merito, li decidono le parti sociali. Ma fermiamoci qui, per carità. E limitiamoci a constatare l’inquietante “altrove” in cui abitano i patrioti. La realtà vera è un’altra.
Ce l’ha rivelata l’Istat. Soffriamo la peggiore glaciazione demografica d’Europa: dal 2002 ad oggi abbiamo perso 3 milioni di giovani, dal 1994 addirittura 5 milioni. Stentiamo sulla crescita: dal 2000 ad oggi l’aumento del Pil è stato di 20 punti inferiore a quello di Francia e Germania e di 30 punti rispetto alla Spagna. Arranchiamo sulla produttività del lavoro: dal 2007 abbiamo guadagnato l’1,3 per cento, contro il 10,5 per cento della Germania e il 15,2 per cento della Spagna. Freniamo sulla produzione industriale: da 13 mesi consecutivi le imprese registrano una variazione tendenziale negativa.
Il Fondo Monetario Internazionale — di cui pure non siamo tifosi acritici, vista la cura della Troika ai tempi della tragedia greca — ci ha ricordato l’ovvio, cioè che il Belpaese ha il debito più alto della Ue e che per non rischiare guai irreparabili sullo spread dovrebbe garantire un avanzo primario del 3 per cento nei prossimi tre anni, cioè manovre correttive per un totale di 60 miliardi.
Eurispes ci ha sbattuto in faccia il disagio sociale: 5,7 milioni di italiani sono in povertà assoluta, il 57,4 per cento fatica ad arrivare alla fine del mese, il 32,1 per cento è costretto a chiedere aiuto alla famiglia d’origine, il 28,3 per cento rinuncia alle cure sanitarie. Come osserva il presidente Gian Maria Fara, «il governo è chiamato a far funzionare l’Italia, non solo ad esercitare il diritto di guidare il Paese che gli è stato affidato con le elezioni».
E invece è proprio a questo che Meloni non si vuole rassegnare. Dovrebbe occuparsi di governare l’Italia, invece è troppo presa a dare fuoco alle polveri, a inseguire e a fabbricare nemici, a inveire “contro”. Contro la sinistra che si oppone, contro i giudici che indagano, contro gli studenti che manifestano, contro gli intellettuali che obiettano, contro i giornalisti che scrivono, contro «le solite lobby, i soliti poteri economici, quelli che hanno sempre dato le carte» (si fa fatica a crederlo, ma a Trento è riuscita a riscaldare anche questa minestra rancida da vecchio Movimento Sociale di fine anni ‘70).
Ma proprio per sconfiggere i mulini a vento contro i quali combatte, Meloni inventa la scorciatoia: il premierato forte è indispensabile proprio per questo, è una «misura economica» perché, stabilizzando i governi, valorizza i cittadini-elettori e rassicura imprese e mercati. Un bel salto mortale, visto che l’elezione diretta del presidente del Consiglio non garantisce affatto “governabilità”, ma trasforma la democrazia parlamentare in autocrazia elettiva e in capocrazia plebiscitaria. Se poi la si accoppia all’Autonomia Differenziata — che spacca in due il Paese, sfascia la Sanità pubblica, affama il Mezzogiorno — allora proprio quella “scorciatoia” diventa la via più breve per l’inferno.
È un giudizio ormai quasi unanime, che va dai giuristi ai costituzionalisti, dai sindacati e alla Chiesa. Persino il cardinal Zuppi — dando voce allo sdegno della Cei — avverte che quel papocchio di presunte riforme «rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà, che è presidio dell’unità della Repubblica».
Ci aspettano mesi difficili: la delega politica, ai partiti di un centrosinistra ancora così frammentato, non può bastare. Tocca alla società civile battere un colpo, in nome della Costituzione e della buona democrazia. Come ha detto Liliana Segre, in uno dei più straordinari discorsi tenuti a Palazzo Madama: «Non possiamo e non vogliamo tacere».