
(di Marcello Veneziani) – Che ne sarà dei cinque stelle degrillizzati? Non sappiamo come andrà a finire la replica del voto richiesta da Beppe Grillo, ma il Movimento 5 stelle vive un travaglio decisivo per il suo avvenire, con implicazioni interessanti anche sullo scenario politico italiano. E prescindiamo dalla questione parricidio nei confronti di Grillo, la loro ingratitudine e il suo risentimento. Noto solo che in politica vige la separazione delle carriere tra fondatori e gestori, tra tribuni della plebe e capataz.
Mi sono trovato domenica scorsa sul podio della loro assemblea nell’ora campale in cui il Movimento 5 Stelle decideva il suo futuro e recideva il suo passato grillino. Erano terminate le operazioni di voto, e mentre si svolgevano gli scrutini, Giuseppe Conte ha voluto che ci fosse sul palcoscenico davanti a migliaia di “grillini” un dialogo tra me e Marco Travaglio condotto da Manuela Moreno, sugli ultimi quindici anni di vita politica e sul ruolo del Movimento. Travaglio è un punto di riferimento, quasi un idolo, per i militanti pentastellati; io invece un corpo estraneo, un visitatore straniero, se non un alieno. Sono sempre stato molto critico nei loro confronti, soprattutto quando erano al governo e al tempo del Covid, nella seconda versione giallorossa. I motivi sono evidenti e ancora attuali. Reputo impraticabile la democrazia diretta e l’autogoverno dei popoli, detesto l’uno vale uno, non condivido il reddito di cittadinanza e reputo sciagurato il 110%.
Invece l’attuale posizione del Movimento, in particolare sui temi internazionali, dal conflitto russo-ucraino a quello israeliano versus Hamas e i palestinesi, Hezbollah, l’Iran e il Libano, rispecchia un’opinione diffusa in Italia e in Europa, che condivido, e che diverge da quella del governo e dalle principali forze in campo, sia di destra che di sinistra. Il vantaggio dei 5Stelle è che sono all’opposizione, fuori dall’establishment, non hanno legami internazionali con altre forze di governo. È curioso infatti notare che al di là della netta contrapposizione inscenata tra i dem e fratelli d’Italia, molte linee di fondo, in politica estera ed economica, sono alla fine convergenti. E la conclusione della nomina di Raffaele Fitto alla vicepresidenza della commissione europea, lo conferma. Il loro tratto d’unione mi pare Ursula von Draghi, e da lontano la benedizione di Biden (con scadenza natalizia).
Rispetto a questo il Movimento di Conte ha le mani libere e può permettersi di andare controcorrente, rappresentando una larga opinione pubblica contraria all’establishment. Naturalmente i 5Stelle si possono permettere questa posizione non allineata perché sono all’opposizione; se fosse al governo anche Conte non potrebbe fare altrimenti, si allineerebbe ai diktat internazionali, come del resto già accadde quando era al governo. Ma allora come adesso c’è una variabile incontrollata che può mischiare le carte: allora c’era Trump alla Casa Bianca, e anche adesso ci sarà presto lui. E quell’arrivo scompagina tutto e tutti, destra di governo inclusa e commissione europea.
Alla kermesse degli ex-grillini ho sostenuto che la scelta di campo progressista, ribadita da Conte e poi temperata dalla precisazione di progressisti “indipendenti”, è un errore strategico e politico dal loro punto di vista. Perché li destina a un’alleanza subalterna con i Dem di Elly Schlein che per loro sarebbe rovinosa, perdente. A parità di progressismo, perché gli elettori non dovrebbero preferire il partito maggiore, la casa madre del progressismo?
L’alleanza del cosiddetto campo largo conviene naturalmente al partito egemone, il più grosso; e può essere utile strategia di sopravvivenza per i piccoli partiti che altrimenti sarebbero tagliati fuori. Non conviene invece ai 5 Stelle che sono forza intermedia, perché avrebbero un ruolo al rimorchio, sarebbero fagocitati dal Pd- come dice Chiara Appendino – e soprattutto perderebbero la loro ragion d’essere, la loro diversità che è il loro residuo appeal sull’elettorato. I 5 Stelle sono “condannati” alla loro indipendenza, alla loro irriducibilità ai due poli della politica, al di là della destra e della sinistra. Come aveva capito Alessandro Di Battista, il più coerente e genuino tra i grillini, pur nel suo velleitario movimentismo. La sola carta del movimento è essere outsider, fuori dall’establishment, come non è possibile per la destra di governo e per la sinistra organica a quel sistema. L’allineamento alle direttive europee, alla leadership della commissione e della banca centrale europea, alla Nato e ai grandi potentati transnazionali è comune alla destra quando è al governo e alla sinistra anche quando è all’opposizione. La Meloni raccolse i suoi consensi quando era da sola all’opposizione e tuonava contro l’establishment; ma sappiamo bene che se lo facesse ora, in 48 ore sarebbe fuori dal governo, o l’Italia finirebbe in default.
Agli ex-grillini converrebbe dunque poter sfruttare il proprio “isolamento” a vantaggio di una linea che destra e sinistra non possono permettersi. Le alleanze li penalizzano. E non solo: il movimento 5 stelle, se vuole restare fedele alla sua originaria vocazione antisistema, dovrebbe schierarsi decisamente contro il conformismo woke, il mainstream, la pappa mediatico-intellettuale dominante. Dovrebbe poi rivendicare la sovranità nazionale e popolare del nostro Paese, spiazzando la destra. E dovrebbe riprendere alcune battaglie sociali, popolari contro i poteri forti e il capitalismo globale spiazzando la sinistra dem.
Su questa linea mi pare che troverebbero il sostegno dell’unica voce giornalistica al loro fianco, Il Fatto di Marco Travaglio, e potrebbero ritagliarsi spazi politici, pescando non solo tra gli scontenti di destra e di sinistra ma anche nella vasta platea del partito di maggioranza assoluta nel nostro paese (e in Europa): coloro che non vanno più a votare. Se scelgono il campo progressista, e si presentano come alleati, consuoceri, spalla dei dem, possono vincere qualche Umbria di passaggio, ma perdono peso, voti e agibilità politica. Possono vincere qualche battaglia ma perdono la guerra, come teorizza dall’opposizione a Conte quel von Clausewitz di Danilo Toninelli.
Come si vede, non ci vuole un genio per capirlo.