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Il gioco delle tre riforme

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Premierato, autonomia e giustizia erano le pietre angolari sulle quali poggiava il patto della coalizione fascioleghista nata per “riscrivere la storia”. Ma di cotanta speme restano solo le scorie civiche e politiche

Roma, 4 dicembre: Giorgia Meloni a palazzo Chigi

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Nell’Italia che galleggia, intrappolata nella neghittosa medietà descritta dal Censis, affondano non solo il ceto medio e l’equità sociale, ma anche le “grandi riforme” della destra al comando. All’inizio della legislatura, ottobre 2022, nel cielo della patria sembrava battere di nuovo “l’ora segnata dal destino”: premierato, autonomia differenziata, giustizia erano le tre pietre angolari sulle quali poggiava il nuovo patto della coalizione fascioleghista, nata — ça va sans dire — per “riscrivere la storia”. Due anni dopo, di cotanta speme restano solo le scorie civiche e politiche, difficili da smaltire per una classe dirigente totalmente incapace di produrre qualunque forma di vera “egemonia culturale”, declinata invece solo in termini di gioiosa e livorosa occupazione del potere.

La sanzione più severa a questo “metodo di governo” — che mescola ideologismo, velleitarismo e dilettantismo — è arrivata dalla Consulta. Piovute un po’ in sordina in un discorso pubblico dominato dalle guerre in Ucraina e in Palestina, le motivazioni della sentenza sull’autonomia differenziata segnano la sconfitta forse definitiva di un progetto palesemente dissennato, che solo l’indipendentismo farlocco di Salvini e il trasformismo posticcio di Meloni potevano provare a nascondere.

Quella legge, approvata dalle Camere a colpi di maggioranza, non sta in piedi da nessun punto di vista. La Corte l’ha smontata pezzo per pezzo, e alla fine di quel testo mal scritto e mal pensato resta poco e niente. Non resta l’idea balzana di un “popolo regionale”, che esiste solo nella mente di Calderoli ma non nella realtà del Paese, che non è la somma di ventuno piccole Repubbliche ciascuna con il suo ordinamento, ma è una nazione fatta di “unità non frammentabili”. Non resta l’attuazione “deviata” del Titolo V, che va perseguita garantendo “l’equilibrio tra uguaglianza e differenza”, rispettando la forma di Stato repubblicana e armonizzando le norme ai principi della Costituzione italiana.

Non resta la follia delle 28 materie trasferibili, perché la diversità e la competizione tra le Regioni non può mai minare i principi di unità, solidarietà e uguaglianza. Non resta l’assurdo “mercato delle competenze”, cioè la devoluzione negoziata dal centro alla periferia, perché in molti macrosettori — come il commercio estero, l’ambiente, l’energia, i trasporti, la scuola, le professioni — è “difficilmente giustificabile” anche il semplice trasferimento di funzioni.

Non resta la foglia di fico dei “Livelli essenziali di prestazione”, che da Palermo ad Aosta dovrebbero assicurare parità di diritti a tutti i cittadini e che — con buona pace del professor Cassese — non possono essere affidati a una commissione inventata da palazzo Chigi con un dpcm.

Quello che resta è l’unico regionalismo possibile, previsto e valorizzato già dai Padri costituenti, che non contempla la devolution ma realizza la sussidiarietà, non autorizza la secessione dei ricchi ma la cooperazione tra i territori. Ma soprattutto, secondo i giudici costituzionali, alla fine quello che resta è il Parlamento.

Non il “votificio” al quale ormai l’hanno svilito questo governo e tutti quelli che l’hanno preceduto, ma il solo organo di garanzia cui spetta il delicato compito di “ricomporre la complessità sociale e il pluralismo istituzionale”. Non il “bivacco di manipoli” al quale spesso lo riduce una maggioranza arrogante e dispotica che ha varato 76 decreti legge e 68 voti di fiducia, ma l’unico “luogo” nel quale si dovrebbe trovare una sintesi virtuosa tra l’unità nazionale e le pulsioni localistiche.

A questo punto ricucire la tela dell’autonomia differenziata, stracciata in mille pezzi dalla Consulta, sarà opera improba per la Lega e impopolare per Fratelli d’Italia. Gli autonomisti padani Zaia e Fontana fanno buon viso a cattivo gioco, ma sono i primi a sapere che quella bandiera autonomista che sventola sul Carroccio è ormai poco più che un feticcio. Contro il quale, per altro, resta innescata anche la miccia del referendum, visto che i rilievi della Corte non sembrano precludere la validità del quesito totalmente abrogativo della legge.

La premier farebbe bene ad abbandonare al suo destino quell’infausto provvedimento, che le crea più malefici che benefici. Ma con capitan Matteo indebolito ma illividito, e sempre più in modalità pre-Papeete, anche questo è un alto rischio. E dunque, per tornare al Censis, la Sorella d’Italia per non affondare può solo galleggiare.

Lo stesso ragionamento vale per la giustizia, dove l’unica cosa che si vede è il caos tutt’altro che creativo del ministro Nordio, e soprattutto l’attacco e l’intimidazione sistematica contro i magistrati, unico fronte sul quale le varie anime perse delle destre colpiscono unite, nel solco dell’odio per le toghe rosse inoculato dal Cavaliere nelle vene del Paese.

Le dimissioni obbligate della giudice Apostolico, da questo punto di vista, sono solo l’ultimo gravissimo epifenomeno di un disegno di aggressione e di delegittimazione del terzo potere dello Stato. A maggior ragione, la stessa considerazione su una politica che oscilla tra galleggiamento e affondamento vale per quella che Meloni aveva definito la «madre di tutte le riforme», cioè l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Il disegno di legge di revisione costituzionale è parcheggiato alle Camere, in attesa di future e incerte doppie letture. Al di là di ogni altra considerazione sulla natura tecnicamente eversiva del testo — che fa saltare la bilancia dei poteri e trasforma la democrazia liberale in capocrazia elettiva — i presidenzialismi godono di pessima salute in Occidente.

La lezione americana la sappiamo: una nazione iper-presidenziale che si sta trasformando in un gigantesco complesso militare-digitale, e che nel micidiale kombinat Trump-Musk realizza un dispositivo oligarchico onnipotente e del tutto auto-referenziale, dove salta ogni check and balance e dove la Casa Bianca ha in mano tutte le leve della decisione, i due rami del Congresso e la Corte suprema. Ora si aggiunge anche la lezione francese: una nazione semi-presidenziale dove Macron regna ma non governa, e dove gli esecutivi della Quinta Repubblica transalpina cadono come birilli, al pari di quelli della Prima Repubblica tricolore.

Cosa ci insegnano, le vicende parallele di due grandi Paesi che abbiamo citato spesso a modelli, è piuttosto chiaro. Non è affatto scontato che il modo più sano e sensato di risolvere la crisi delle democrazie rappresentative, e di costruire le mitiche “democrazie decidenti”, sia lo sbocco plebiscitario dell’elezione diretta. Per la stabilità dei governi l’ingegneria delle istituzioni è condizione necessaria ma niente affatto sufficiente, se non è preceduta e accompagnata dall’alchimia delle coalizioni.

Le regole del gioco sono fondamentali, ma sono uno strumento dell’azione di governo, non il suo fine. Alla fine, è sempre e solo la politica che conta e che fa la differenza. Meloni non cerchi scorciatoie. Lasci stare i complotti, non scomodi la Storia e cerchi piuttosto di richiamare all’ordine le comari di Windsor della sua maggioranza rissosa e inconcludente. Dimostri di saper governare nell’interesse dei cittadini, se ne è capace. E lasci perdere pulsioni autoritarie e tentazioni plebiscitarie.

Non ripete ogni giorno lei stessa che l’Italia è la nazione più solida e più stabile d’Europa? Se è così, che bisogno ha l’Underdog della Garbatella di inseguire il vacuo sogno dell’Uomo di Arcore, chiedendo agli italiani di consacrarla Unta del Signore? Più che a Berlusconi, forse siamo già ad Andreotti, che diceva meglio tirare a campare che tirare le cuoia.


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