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Siria, così il regime sciita è collassato: ora incombe il fantasma di Gheddafi

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Il raiss era sopravvissuto alla primavera araba, con gli insorti alle porte, grazie all’aiuto dei miliziani libanesi. Ora il fronte si è rotto, l’esercito evapora

Siria, così il regime sciita è collassato: ora incombe il fantasma di Gheddafi

(Domenico Quirico – lastampa.it) – I crepuscoli dei tiranni si assomigliano, che si chiamino duce conducator raiss colonnello Vlad. In Siria gli indizi si accatastavano da alcuni giorni con grande velocità. Bisogna sempre tener d’occhio i comunicati dei comandi supremi, indicatori infallibili esempi: «Ritirata da Homs per non provocare combattendo casa per casa un massacro di civili…», gli stessi che hanno sfasciato Aleppo e il suo popolo quartiere per quartiere; «l’esercito sostenuto dai suoi alleati si sta riorganizzando per passare all’offensiva…», e la ritirata è stata di cento chilometri. Le povere bugie della sconfitta. Quando è già irrimediabile.

E poi c’è il Palazzo. O il bunker o la residenza, l’ultimo atto insomma. Dove è presente la vertigine della caduta, l’abisso dell’oblio. In questo caso arroccato sulla montagna che controlla da quarant’anni torvamente Damasco dall’alto. La ciclopica bandiera penzola nel caldo umido. Le sale un tempo affollatissime si fanno di ora in ora silenziose. Armadi spalancati e saccheggiati, dossier segretissimi sparsi a terra. Arriva dagli uffici del protocollo presidenziale la voce di una televisione lasciata accesa: i ribelli hanno preso Homs… sono a venti chilometri dalla capitale… nessuna resistenza… Nella gabbia del televisore i jihadisti di Al-Sham che festeggiano e i soldati che si arrendono gettando le armi cominciano a premere, urgono, si impastano senza tregua come se spalancassero una prigione con le disperate mutezze dei fuggiaschi, alauiti terrorizzati dalle vendette, e i pietosi rosari delle città perdute.

Il dittatore è nel suo ufficio, una penna, della carta ormai è tutto ciò che gli serve. I rapporti sono là, abbandonati in un angolo del tavolo ma si son fatti di ora in ora più rari. Silenzi da Nord da Sud da Est. I comandi non rispondono più. Perfino i mukhabarat sembrano esser fuggiti dalla caserme che fino a quattro giorni fa la gente rasentava stando al largo e abbassando la voce. Il suo spirito si calma, i suoi nervi si distendono. Quando gli hanno portato la notizia, una settimana fa ma sembra un secolo, che la bandiera ribelle con le tre maledette stelle sventolava ad Aleppo sulla sua Cittadella aveva picchiato il pugno sul tavolo e assalito il generale responsabile della disfatta di domande e di accuse: «Cinque anni ho impiegato a riconquistarla e voi traditori in due ore…».

Adesso ormai nulla sembra turbarlo, le urla delle masse scatenate che insudiciano e danno fuoco alle sue gigantografie, le statue del padre che cadono con fragore, non ode il clamore dei massacri dei suoi irriducibili, pochi, che non hanno fatto a tempo a fuggire. Riunisce a fatica gli ultimi funzionari e i mushir, i generali, che non hanno ancora finito di riempire borse e valige, l’auto nel cortile che li attende con il motore acceso, già, le vie di fuga si stanno chiudendo una ad una, il Libano forse è già irraggiungibile. Sono vecchi con gli occhiali, i capelli radi, le gote cascanti, le medaglie che si ingobbiscono su pance prominenti. Vengono da lui ormai solo per dirgli: lishkil, problema. Alcuni di loro li ha ereditati dal padre, sono quelli che gli hanno insegnato, quando è tornato da Londra, a fare il tiranno, lui che sapeva bene curare la cataratta, aiutare i miopi nel suo elegante studio di oculista. Uffa: l’eterna banale fiaba dei due Bashar, il dottor Jekyll e mister Hyde, il giovanotto borghese e il tiranno spietato. Ormai cosa conta? Spesso è il timore di non eguagliare i padri a creare gli assassini.

Abbozza ancora decreti, redige proclami e appelli ai suoi alleati, Mosca Teheran Hezbollah, rimugina i vecchi patti solenni, i loro giuramenti inalienabili, la mano sul cuore… Ah se avesse ancora al fianco i quadrati reggimenti del Partito di dio, le loro crudeltà efficienti, non il suo esercito scalcinato, tutto cambierebbe come nel 2013. Nella sua routine del potere, in fondo, distruggere non ha un cattivo significato. Ecco: per Bashar l’odio non è un sentimento, non è nemmeno un calcolo. È una idea. Le parole più terribili, impiegare i gas per la repressione, scatenare le razzie umane degli “shabia”, funesti squadroni della morte composti di briganti e assassini, le ha pronunciate e ha imperversato dotato di ubiquità come il Maligno sempre con quel mesto, educato sorriso con cui aveva incantato per lungo tempo anche gli occidentali:.. Bashar il volto giovane dei nuovi leader arabi…

Ce l’aveva quasi fatta a tornare ai picchetti d’onore e ai salamelecchi diplomatici. Altro che il cupo feroce breznevismo del padre Afez, lui appartiene alla categoria di quelli che il delitto lo compiono senza che uno schizzo di sangue o di fango macchi la loro “affreuse’’ innocente. Nessun remake di Saladino, nessun fasullo Fronte del rifiuto, nessun provvidenzialismo sciita. Un ventennio scaltro feroce e viscido, tutto di Mukabarat e corruzione, alleati potenti e solide reti mafiose con gli altri regimi arabi, farsi dimenticare e suggerire che scommettere sul suo contrario può essere un affare peggiore per tutti. Ha funzionato: per un po’.

Nel 2011 non fuggì e lo dicevano già in Corea del Nord con i famigli. E adesso? Il linciaggio osceno di Gheddafi o la vergogna di Ben Ali? Bashar ha consumato le sue sette vite? È davvero l’ultimo quarto d’ora, Bashar è morto, la sua cricca tribal-famigliare è morta, il baathismo è morto? Chissà. Nel 2012 Bashar era in condizioni peggiori di oggi: non controllava più il Paese e neppure il popolo, ventiquattro ore su ventiquattro in tv doveva subire l’Iliade delle rivoluzioni vittoriose da Tunisi ad Hama, era solo questione di tempo perché seguisse la sorte di ben ali Mubarak Gheddafi … dal suo palazzo poteva guardare i combattimenti nei quartieri della capitale che erano passati ai ribelli. E poi la claustrofobia dell’uomo assediato, non poteva andare in nessun posto, un appestato senza rimedio. E poi…

Ha ancora qualche carta da giocare: gli alauiti si batteranno attorno a lui fino alla morte perché sanno che il loro destino è un bagno di sangue, i sunniti verranno a cercarli uno a uno. E poi Mosca e Teheran sono alleati obbligati ad aiutarlo, quanto meno a difendere in una Siria che assomiglierà alla Somalia dei signori della guerra un piccolo bastione sciita e filorusso. E poi c’è il geniale slogan con cui ha rovesciato il destino nel 2013: io combatto i jihadisti, preferite me o un altro califfato fanatico? In Israele sono nervosi, rafforzano il Golan (occupato). Saranno costretti a salvare Bashar?


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