Per lignaggio, storia e cultura Damasco resta la Capitale della grande civiltà araba, in ciò affiancata da Baghdad e Aleppo, anch’esse città millenarie. Vero è che sul finire del Ventesimo secolo la penisola […]

(Di Gad Lerner – ilfattoquotidiano.it) – Per lignaggio, storia e cultura Damasco resta la Capitale della grande civiltà araba, in ciò affiancata da Baghdad e Aleppo, anch’esse città millenarie. Vero è che sul finire del Ventesimo secolo la penisola desertica in cui l’islam vide la luce ha conosciuto un arricchimento tale da prendere le forme innaturali di metropoli come Ryad, Dubai, Abu Dhabi, Doha: avveniristiche e reazionarie al tempo stesso. Altrettanto vero è che l’islam nei secoli è diventato teocrazia non solo fra gli arabi, ma anche dei turchi e dei persiani. Ma la nostra tardiva, dilettantesca passione per la geopolitica – quali potenze si celano dietro le milizie jihadiste che in 11 giorni hanno spazzato via mezzo secolo di dominazione laica degli Assad? – rischia di farci sminuire l’enorme portata simbolica di un evento che nessuno aveva immaginato possibile: nella moschea dei califfi Omayyadi – cuore di Damasco, luogo sacro anche ai cristiani perché prima era una basilica in cui è sepolto Giovanni Battista – abbiamo visto fare ingresso senza colpo ferire il comandante di una formazione jihadista, il misterioso al Jolani. E dal pulpito ha proclamato: “Questa vittoria è per tutta la umma islamica”.
Nessuno sa chi sia davvero, al Jolani. Solo uno sgangherato tagliagole, pedina di Erdogan o dell’emiro del Qatar? Può darsi, anche se i Paesi europei per meschine convenienze domestiche fingono di prenderlo sul serio e revocano il diritto d’asilo ai profughi siriani. Ma ricordiamoci cosa fu l’islam sunnita che irradiava il suo potere da quella moschea damascena. Per secoli Palestina e Libano venivano nominati solo come regioni appartenenti alla Grande Siria. Israele ha sempre evitato di occupare Damasco nonostante si trovi a soli 40 chilometri dalla frontiera del Golan. Ha lasciato finché possibile che la Siria colonizzasse il Libano e, all’occorrenza, favorisse lì il massacro dei palestinesi: a Tel al Zaatar, con le stesse modalità propiziate in seguito da Sharon a Sabra e Chatila.
Ora Netanyahu può fingere esultanza per la caduta di Assad sostenendo che ciò rientrerebbe nei suoi disegni mitomani di un nuovo Medio Oriente pacificato a misura di Israele. Ma è un bluff. L’imprevista caduta di Damasco, sommandosi alla precarietà della tregua siglata con gli Hezbollah, non rende certo più sicuro il rientro degli sfollati nel nord di Israele. Hanno un nemico sconosciuto in più dietro l’uscio di casa, non uno di meno. E viene da chiedersi, lungo quella frontiera di guerra che dal monte Hermone dal lago di Tiberiade scende lungo il corso del Giordano: quanto a lungo potrà ancora reggersi il regno hashemita di Amman, dirimpetto alle pulsioni annessionistiche dei coloni ebrei nel West Bank? Il doppio gioco della Turchia che accusa Netanyahu di essere il nuovo Hitler, si schiera al fianco di Hamas e si offre di mandare truppe a Gaza, ma contemporaneamente mantiene le sue relazioni commerciali e di intelligence con Israele, è una forma di equilibrismo in cui tutti alla fine stanno facendosi male. Perché nel vuoto di potere siriano, nell’umiliazione subita dall’Iran, nella presenza militare mediterranea della Russia ridotta all’irrilevanza, torna ad acquisire un ruolo importante il jihadismo sunnita. E bisognerà pur chiedersi il perché, visto che (come già in passato) nella guerra civile mediorientale anche agli occidentali ha fatto comodo foraggiarlo.
Il guerrigliero barbuto al Jolani, che ora vuole rendersi presentabile agli occhi dei nostri statisti (fingiamo pure di dimenticare che la destra italiana fu accesa sostenitrice del macellaio Assad, in quanto difensore della presenza cristiana in Siria e in Libano) non rappresenta una minaccia immediata per Israele. Per evidente inferiorità militare, ma anche perché da Osama bin Laden al califfo Abu Bakr al-Baghdadi i fautori della jihad globale hanno sempre derubricato a secondaria la questione palestinese. Un conto è dichiararsi nemici dell’“entità sionista”, altro è sacrificarsi al fianco dei miliziani nazionalreligiosi di Hamas. Ma così come hanno combattuto strenuamente l’eresia sciita e le mire espansioniste dell’Iran, adesso questi nuovi custodi dell’ortodossia islamica sunnita si propongono alle masse arabe come alternativa ai regimi corrotti del Golfo. Dalle ceneri di una Siria che hanno lasciato distruggere, i petromonarchi sul genere del saudita Bin Salman vedono emergere fantasmi minacciosi. Rinnovare il patto di ferro con un Netanyahu che neppure finge di cercare una soluzione per i palestinesi e continua a massacrarli sotto gli occhi del mondo? Addirittura fidarsi di lui quando prospetta la spallata finale al regime di Teheran? Meglio aspettare, tanto più che Israele sta continuando a farsi del male da solo nell’illusione di poter calpestare in eterno la sorte dei palestinesi. Chi riempirà quel vuoto? Il nuovo sultano di Istanbul o il nuovo califfo di Damasco?