
(di Michele Serra – repubblica.it) – Se le parole contro l’opposizione fanno parte della ritualità politica più scontata (al pari di molte delle parole dell’opposizione contro il governo), quello che non si perdona e soprattutto non si capisce, della prosa di Meloni, è il trionfalismo. Perché esporsi così spericolatamente, perfino così ingenuamente, parlando di un Paese invecchiato e in affanno come se fosse una locomotiva in corsa, e addirittura “un esempio per l’Europa”?
Non lo è, non lo siamo. E non per fare un dispetto a Meloni, ma perché stiamo attraversando anni difficili e semi-depressi, con l’industria che vacilla in molti comparti decisivi, sanità e scuola che stringono i bulloni per non perdere troppi pezzi, una natalità asfittica a causa delle asfittiche condizioni delle giovani coppie (non ci fossero gli immigrati saremmo tra breve una comunità di bacucchi) e un umore complessivo che, se non è proprio pessimista, è stagnante, perplesso, incerto.

Si capisce che un governo tenda a mantenere alto il morale, ma fino a che punto? Non al punto di mentire al Paese (dunque anche ai propri elettori) dipingendo un percorso dorato, irreale, una vanteria che alla fine – tra l’altro – si ritorcerà contro chi l’ha sbandierata. Quanto sarebbe bello, consolante e alla fine rassicurante essere governati da persone che non nascondono le difficoltà, non occultano gli ostacoli e anzi li indicano, come è onesto fare. Che ci parlano come si parla agli adulti e non ai bambini, che non alzano la voce se non per gravi ed eccezionali ragioni, che considerano più importante avere cura della realtà che organizzare fanfare.