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Premierato, la riforma che contraddice se stessa

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Forgia due Costituzioni, nemiche una dell’altra. E obbligate tuttavia a convivere sotto lo stesso tetto, come due coniugi separati in casa. Insomma, dà i numeri. Eccoli

(di Michele Ainis – repubblica.it) – «Preferirei che la maggior parte delle persone mi contraddicesse» diceva Socrate «piuttosto che sia io ad essere in disaccordo con me stesso». Ma a quanto pare la coerenza è una virtù negletta, dimenticata. Ne è prova l’impresa che ne esigerebbe viceversa la massima applicazione: il premierato, la super-riforma costituzionale al vaglio del Senato.

Che non contraddice solamente i principi del costituzionalismo democratico (separazione dei poteri, check and balance, sovranità del Parlamento). No, s’oppone anche a se stessa. Giacché i nuovi istituti lasciano in vigore i vecchi, senza abrogarli né correggerli, pur essendo reciprocamente incompatibili.

Di conseguenza il premierato forgia due Costituzioni, nemiche una dell’altra. E obbligate tuttavia a convivere sotto lo stesso tetto, come due coniugi separati in casa. Insomma, è una riforma che dà i numeri. Eccoli.

Anzitutto un terno: 56, 57, 92. I primi due articoli — che restano invariati — assegnano dodici parlamentari su seicento al voto degli italiani residenti all’estero; l’ultimo — nuovo di zecca — stabilisce che il presidente del Consiglio venga eletto “a suffragio universale e diretto”.

E allora facciamo qualche calcolo. Gli elettori sono, più o meno, cinquanta milioni; fra questi, cinque milioni vivono fuori dai sacri confini. Quindi un decimo del corpo elettorale, che però non elegge un decimo del Parlamento, bensì un cinquantesimo.

Viceversa nell’elezione più determinante — quella del nuovo capo della democrazia italiana — uno vale uno, anche se hai casa in Ecuador, e qui non ci paghi le tasse. Anche se voti per corrispondenza, dove i brogli sono all’ordine del giorno. Anche se il tuo voto, quando la vittoria corre sul filo del rasoio, può decidere il sovrano che noi indigeni ci terremo sul groppone.

E anche se ne deriva in ultimo una sproporzione — di più: una contraddizione — fra seggi e voti, fra il peso di ciascun emigrato rispetto al Parlamento e rispetto al presidente del Consiglio. Pazienza, ci procureremo due bilance.

Secondo: la fiducia. Dice l’articolo 94, in un comma che non viene scalfito dallo scalpello dei riformatori: “Il governo deve avere la fiducia delle due Camere”. Significa che senza il loro appoggio non può governare. Ridice l’articolo 94, in un comma aggiunto adesso: “In caso di revoca della fiducia al presidente del Consiglio eletto, mediante mozione motivata, il presidente della Repubblica scioglie le Camere”. Dunque per licenziare il governo serve una “mozione di sfiducia”.

Ma nella storia della Repubblica non è mai accaduto. È accaduto viceversa (a Prodi, per due volte) che l’esecutivo sia caduto su una “questione di fiducia”. Che a sua volta si traduce in un ricatto verso i parlamentari della maggioranza: o votate quel tal provvedimento oppure mi dimetto, e andiamo tutti a casa. Ricatto, peraltro, largamente praticato dal governo Meloni: 47 questioni di fiducia nei primi 18 mesi, un record.

E che succederà in futuro? Se applichiamo il primo comma, in caso di voto contrario scattano le dimissioni obbligatorie. Se applichiamo il quarto comma no, giacché l’esecutivo verrebbe battuto su una “questione” di fiducia, non su una “mozione”. Vorrà dire che tireremo i dadi.

Terzo: le elezioni anticipate. Anche qui due commi in lite come due comari. Dice l’articolo 88, nel suo primo comma: “Il presidente della Repubblica può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le Camere”. Se “può” farlo, vuol dire che può anche non farlo. Decide lui, insomma, valutando le condizioni politiche.

E continuerà a decidere, dato che quel comma sopravvive alla riforma. Che però gli affianca un secondo comma, dove lo scioglimento diventa “atto dovuto”. Da qui un rovello, un dubbio esistenziale: il capo dello Stato “può” o “deve” sciogliere il Parlamento? Delibera in autonomia oppure agisce sotto dettatura?

Mentre ci angoscia l’incertezza, dovremmo forse aggiungere un terzo comma a questa amletica disposizione. Chiamando in soccorso, nella nuova Costituzione, gli psichiatri.


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