(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Trump alla Casa Bianca significa per noi europei che l’Atlantico continuerà ad allargarsi. La distanza fra Stati Uniti e loro satelliti è in crescendo da quando la fine della comunanza degli interessi vitali – impedire la penetrazione sovietica e comunista nel Vecchio Continente – ha riportato in evidenza le differenze culturali, economiche, finanziarie e geopolitiche fra i due poli dell’Atlantico settentrionale. Accentuate negli ultimi anni dalla crisi di identità americana e da quella degli europei, all’insegna del ciascuno per sé nessuno per tutti.
Prima il Covid-19, poi la guerra in Ucraina hanno svelato gli egoismi nazionali, a scapito della collaborazione interatlantica. Gli Stati europei sono fra l’altro alle prese con i controeffetti non voluti delle sanzioni alla Russia, promosse anzitutto da americani e britannici a spese nostre. Lo si osserva nettamente dall’andamento dei prezzi dell’energia, che risentono soprattutto del crollo (provvisorio?) delle forniture via tubo di idrocarburi russi, con immediate conseguenze sull’industria e sull’occupazione. Quel che è peggio, il gap tecnologico fra America e paesi europei tende a crescere, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, del quantum computing, dello spazio.
Infine, l’ombrello nucleare americano a tutela della sicurezza euroatlantica ha perso credibilità. A fronte dell’inesistenza/impossibilità di una difesa europea, che presupporrebbe uno Stato europeo. La pretesa di elevare al 5% il rapporto fra spese per la difesa e pil è chiaramente improponibile per i maggiori Stati europei dell’Alleanza Atlantica, fra i quali fa eccezione solo la Polonia.

Trump non è però prevedibile e non è il solo decisore a stelle e strisce, specie in presenza di Musk e delle altre star miliardarie cresciute a Silicon Valley, oggi all’assalto del governo federale. Non si può estrapolare dalla sua tattica di campagna elettorale la strategia per il prossimo quadriennio. Una cosa è Mar-a-Lago, altra è Washington, con i suoi apparati tutt’altro che allineati al presidente.
Il primo compito di Trump sarà di offrire agli americani un orizzonte di gloria recuperata. La sua politica estera si giocherà sulla capacità di proteggere i confini per limitare l’immigrazione e per mettere in sicurezza il Paese rispetto alla penetrazione cinese e russa. Come la reclamata annessione di Groenlandia e Canada, insieme alla ripresa del Canale di Panama, lascia intendere. Anche se non se ne facesse nulla, il segnale è comunque chiaro: l’America vuole riaffermarsi Numero Uno nella geopolitica planetaria.
Decisiva per noi sarà la tregua in Ucraina su cui il nuovo/vecchio presidente sta investendo molto, così come ha fatto in Medio Oriente. Impresa possibile, anche se le condizioni per la cessazione delle ostilità fra i due Stati postsovietici sembrano lontane. Comunque, per le avanguardie antirusse più scatenate – Svezia, Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania – l’obiettivo è di portare la Nato in guerra con la Russia, in modo da chiudere per sempre la partita con l’impero del Male, non certo di accordarsi con Putin. Su quel fronte, una sola certezza: quando si smetterà di sparare, saremo noi europei a doverci occupare della ricostruzione dell’Ucraina – una partita da almeno 500 miliardi di euro, forse il doppio – e della sua molto eventuale integrazione nell’Ue.
Se guardiamo l’Europa da Washington, con occhi americani, vi vediamo soprattutto problemi, declino e scarsa affidabilità È da oltre un secolo che il centro del mondo si è spostato in America. L’obiettivo degli americani è che l’Europa non deragli verso la Cina. Perciò non l’abbandonerà a se stessa, ma pretenderà da noi di svolgere parte dei compiti finora assegnati a Mamma America. In questa partita noi europei siamo clienti da utilizzare molto più che soggetti con cui confrontarsi.