L’idea di pace di Trump per il nuovo Medio Oriente. Spiagge e lusso nella Striscia ma senza i palestinesi. In Israele molti ci sperano. Non solo l’estrema destra

(Francesca Mannocchi – lastampa.it) – Martedì scorso Donald Trump ha scioccato il mondo presentando il suo piano per il dopo guerra. Una Gaza su cui gli Stati Uniti avrebbero «preso il controllo» prima di riconsegnarla a Israele, un piano per riqualificare la Striscia. Un progetto dove a parlare sono più i futuribili piani immobiliari che il linguaggio della diplomazia.
Una visione in cui la pace coi palestinesi è seppellita sotto le macerie di una guerra che ha danneggiato e distrutto due terzi degli edifici della Striscia e in cui, invece di sostenere la rimozione degli insediamenti illegali in Cisgiordania, per favorire uno stato palestinese, di sostiene l’emigrazione dei palestinesi da casa loro.
Le ambizioni dell’estrema destra israeliana
Le dichiarazioni di Trump sono probabilmente le parole che l’estrema destra israeliana aspettava da tempo. Parlare di trasferimento dei palestinesi da Gaza risponde al sogno coltivato da decenni dai settori più estremisti del parlamento e ha prevedibilmente raccolto immediato sostegno. Il primo a celebrare è stato ovviamente Netanyahu, per lui durante la conferenza stampa ha parlato prima il corpo – i sorrisi come forma di riconoscenza verso un amico che fa un regalo tutt’altro che inatteso – e poi le dichiarazioni formali: «uno degli obiettivi (dell’invasione di Gaza, Ndr) è assicurarsi che non rappresenti mai più una minaccia per Israele. Il presidente Trump lo sta portando a un livello molto più alto. Penso che sia qualcosa che potrebbe cambiare la storia e vale davvero la pena perseguire questa strada».
Non si sono fatti attendere i commenti degli esponenti della destra religiosa. Yitzhak Wasserlauf, che era ministro fino a un mese fa, cioè fino a che il suo partito, il Potere Ebraico guidato da Ben-Gvir, ha lasciato il governo in segno di protesta contro l’accordo sul cessate il fuoco a Gaza, ha dichiarato che «Trump ha detto quello che diciamo noi, se lo diciamo noi è razzismo o apartheid, ma alla fine l’idea è la stessa».
Nel magnificare la proposta di Trump, Wasserlauf l’ha descritta come «morale e la più umanitaria che esista», il passo necessario per legittimare la ricolonizzazione di Gaza vista da sempre dalla destra religiosa come «l’unica soluzione al problema, l’unica strategia possibile per il giorno dopo».
È stato proprio il partito di Ben Gvir a presentare una proposta di legge per includere un pacchetto di aiuti economici volti a incoraggiare i cittadini di Gaza «senza una storia di attività terroristica» ad andarsene. Nella proposta si legge anche che «se un residente di Gaza chiede di tornare nella Striscia, anche se era minorenne quando l’ha lasciata, gli verrà richiesto di restituire il doppio del pacchetto di aiuti oltre al costo della vita e agli interessi, e di sottolineare che finché non soddisferà questa condizione, non gli sarà consentito di entrare nella Striscia di Gaza, e nello Stato di Israele».
Secondo il potente ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich che guida il partito Sionismo Religioso, le parole di Trump riconoscono che Gaza «è un terreno fertile per il terrore» e che «non c’è dubbio che a lungo termine incoraggiare la migrazione sia l’unica soluzione».
D’altronde era stato proprio Smotrich, nel 2017, a scrivere il Decisive Plan per risolvere la questione della presenza palestinese in Israele. Un «piano decisivo» i cui punti principali erano già l’annessione della Cisgiordania e l’incoraggiamento all’emigrazione “volontaria” dei palestinesi nei Paesi arabi e il parallelo incoraggiamento per «decine e centinaia di migliaia di residenti israeliani a trasferirsi in Giudea e Samaria (il nome biblico della Cisgiordania, Ndr)».
Già pochi giorni dopo l’elezione di Trump, Smotrich, a cui Netanyahu ha conferito ampia autorità sulla Cisgiordania, ne aveva celebrato il ritorno alla Casa Bianca: «Quando Trump vuole qualcosa, la ottiene e il 2025 – aveva detto – sarà, con l’aiuto di Dio, l’anno della sovranità in Giudea e Samaria».
Il favore verso le parole di Trump non si limita, però, agli esponenti dell’estrema destra, o a quelli di governo, il consenso è trasversale. Dall’opposizione esprimono sostegno Benny Ganz: «il presidente Trump ha dimostrato, e non per la prima volta, di essere un vero amico di Israele» e il leader dell’opposizione ed ex primo ministro Yair Lapid, che ha elogiato la «buona conferenza stampa per lo Stato di Israele» e ha chiesto di «studiare i dettagli per capire qual è il piano a Gaza». Non sorprende, dunque, il sondaggio pubblicato mercoledì dal think tank Jewish People’s Policy Institute con sede a Gerusalemme secondo cui l’82% degli ebrei israeliani sostiene il “trasferimento” dei cittadini di Gaza in altri Paesi, divisi tra coloro che lo vedono come pratico (52%) o solo auspicabile ma irrealistico (30%). Solo il 3% degli intervistati lo considera immorale.
La diplomazia immobiliare
Le parole che vedono Gaza descritta come la Riviera mediorientale chiarificano anche le scelte diplomatiche della nuova amministrazione Trump. Le biografie di chi è chiamato a rappresentare gli Stati Uniti d’America in Israele sposano una posizione chiara: lo Stato palestinese è destinato a non vedere la luce.
Il nuovo inviato speciale americano per il Medio Oriente è Steven C. Witkoff, ebreo, miliardario, imprenditore immobiliare. Amico della famiglia Trump da decenni, ha lavorato per loro come legale prima di fondare la sua azienda immobiliare. Negli ultimi dieci anni, quello che Trump descrive come «il suo amico speciale» ha donato quasi due milioni di dollari per le sue attività politiche. Prende il posto che fu del genero di Trump, Jared Kushner, nel precedente mandato. Kushner, che ha descritto il conflitto israelo palestinese come «nient’altro che una disputa immobiliare» ha più volte mostrato interesse per Gaza al punto da elaborare un piano di 181 pagine, pubblicato nel gennaio del 2020, chiamato “Pace per la prosperità”. Si legge: «oltre 40 chilometri di costa a Gaza lungo il Mar Mediterraneo potrebbero trasformarsi in una moderna città metropolitana che si affaccia sulla spiaggia, prendendo spunto da esempi come Beirut, Hong Kong, Lisbona, Rio de Janeiro, Singapore e Tel Aviv». Kushner ha continuato a promuovere le stesse idee anche dopo il 7 ottobre, due giorni dopo l’attacco a Israele da parte di Hamas. Intervistato ad Harvard ha detto: «Penso che dal punto di vista di Israele, farei del mio meglio per far uscire la gente e poi ripulire tutto».
Steve Witkoff, questa settimana ha chiesto indagini sotterranee e piani di costruzione generali, con particolare attenzione a valutare come i tunnel sotterranei scavati da Hamas abbiano indebolito le fondamenta degli edifici nel territorio devastato dalla guerra. Come Kushner, anche Witkoff ha interessi nel Golfo, è stato a Doha, in Qatar, a maggio per partecipare a un forum economico insieme a un alto funzionario del governo che regola i progetti immobiliari nel paese per parlare delle opportunità per nuovi progetti nella regione. Non proprio il profilo di un diplomatico esperto.
Coerente con la visione di un Israele senza palestinesi è anche la scelta di nominare l’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee come ambasciatore degli Stati Uniti in Israele. Primo ambasciatore non ebreo dal 2011, è un pastore evangelico che viaggia in Israele da decenni ed è parte attiva del legame tra le chiese evangeliche e il mondo dei coloni, caro amico di David Friedman, ambasciatore di Trump in Israele nel suo primo mandato, entrambi sostenitori dell’annessione della Cisgiordania occupata.
Durante una visita nei kibbutz dopo il 7 ottobre disse: «Sono venuto qui per dire forte e chiaro che gli evangelici stanno con Israele» e infatti finanziano copiosamente l’espansione di insediamenti e avamposti. Nel 2008 ha detto: «I palestinesi non esistono davvero». Durante le primarie presidenziali repubblicane del 2016, ha detto di considerare la Cisgiordania occupata come una «parte integrante» di Israele e si è impegnato a sostenere l’espansione degli insediamenti. Da decenni ha strette relazioni con i coloni israeliani e il consiglio Yesha, l’organizzazione ombrello degli insediamenti ebraici della Cisgiordania. «Ci sono certe parole che rifiuto di usare – ha detto nel 2017 intervistato dalla Cnn -. Non esiste qualcosa chiamato Cisgiordania. È Giudea e Samaria. Non esiste qualcosa chiamato insediamento. Sono comunità, sono quartieri, sono città. Non esiste qualcosa chiamato occupazione».
Si presenta così la nuova visione statunitense del Medio Oriente, il progetto di pace immobiliare in cui i palestinesi non esistono.