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Gli adoratori di Trump che minimizzano tutto

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Era il 1925, giusto cento anni fa, quando venne pubblicato il Mein Kampf. In Germania pochi diedero peso alle farneticazioni di Adolf Hitler. Sette anni dopo vinse le elezioni e andò […]

(Di Gad Lerner – ilfattoquotidiano.it) – Era il 1925, giusto cento anni fa, quando venne pubblicato il Mein Kampf. In Germania pochi diedero peso alle farneticazioni di Adolf Hitler. Sette anni dopo vinse le elezioni e andò al potere. Ma la stampa internazionale – in testa il New York Times a proprietà ebraica, come ha ricordato Siegmund Ginzberg su Il Foglio – continuò a definirlo un politico ragionevole le cui ruvidezze non erano da prendersi alla lettera; meglio dialogare con quel nazionalista tanto abile nel cavalcare il vittimismo dei tedeschi. Un po’ come Donald Trump che non smette di lamentarsi per quanto gli americani vengono maltrattati da Europa, Messico, Canada.

So quanto le comparazioni storiche suscitino l’ironia di chi si sente protagonista di un mondo nuovo nel quale le categorie politiche novecentesche sarebbero morte e sepolte. Anche se, curiosamente, chi prova fastidio a sentir parlare tanto del passato europeo (fascismo, protezionismo ecc.) poi sono gli stessi che minimizzano il fattore Trump, perché sarebbe in continuità col passato delle presidenze Usa: niente di nuovo, così fan tutti. Spargono scetticismo. La torsione autoritaria da lui impressa al sistema politico statunitense, la bellicosa riscrittura della geopolitica planetaria, la guerra delle tariffe e quella contro i migranti, sarebbero più un bluff che un vero salto d’epoca. Lo avevano descritto come fautore dell’isolazionismo Usa e dunque: “Anche se può apparire paradossale è un pacifista”. Pronostico infelice.

Lo stesso cessate il fuoco fra Russia e Ucraina non sarà certo agevolato dalla sua previsione che un giorno quest’ultima possa venir riannessa dal Cremlino. Riesce altresì difficile immaginare un futuro di pace in Medio Oriente sulle ceneri della nazione palestinese. Forse i posteri ricorderanno The Donald come il volto truce del secolo americano che volge al termine. Di certo come il leader che ha infranto l’Occidente liberale. Ma la Russia di Putin insegna che anche una potenza declinante può diventare molto aggressiva. Non stupisce che il campionario italiano degli esegeti di Trump vada facendosi molto assortito. Hanno per denominatore comune l’intenzione di rassicurarci: suvvia, non sarà la fine del mondo, i suoi sono colpi sparati a salve per incutere rispetto negli interlocutori, ricordatevi che nasce immobiliarista, alzare la posta per meglio trattare sul prezzo rientra fra i trucchi del mestiere, mica lo prenderete sul serio quando si proclama inviato da Dio e la sua consigliera spirituale indica la Casa Bianca “luogo santo”. A fronte degli scettici ci sono i trumpiani entusiasti. Tale è la loro devozione per Giorgia Meloni da fargli perdere il senso delle proporzioni e destinarla al ruolo storico di paciere fra America e Europa, essendosi ridotta l’Onu a “caldera maleodorante, piena di dittatori e antisemiti” che va sostituita (testuale) con una “lega delle democrazie” (Mario Sechi, ieri su Libero). Altri, meno enfatici, sul Corriere della Sera, reputano inevitabile la dissoluzione del diritto internazionale nato all’indomani del 1945 (Angelo Panebianco); e fanno notare che in materia di brutalità con i migranti Trump viene imitato anche da governanti di sinistra (Antonio Polito). Ma è Federico Rampini, onore al merito, il capitano dei trumpiani di sinistra che del presidente americano invidia la sintonia con il popolo, tant’è che molla ceffoni perfino ai “globalisti” del Wall Street Journal quando si permettono di criticare la sua politica dei dazi. Chi poi aveva scelto una linea di neutralità fra Trump e Harris, con lieve preferenza per il primo in quanto “non fomenta le guerre ma le chiude” (M5S) ora pare rallegrarsi che sia venuta meno la cortina d’ipocrisia dell’era democratica e fatica a distinguere fra il giovane Musk e il vecchio Soros.

Non bastasse l’appoggio di Musk all’estrema destra tedesca (per inciso: la sinistra “rossobruna” di Sahra Wagenknecht, in caduta libera nei sondaggi, ha votato assieme ai post-nazisti di Afd e alla Cdu la proposta di legge Merz sulla “limitazione dei flussi migratori”) a chiarire come stanno le cose è sopraggiunto il piano del trapiantatore Trump per Gaza. Liquidarlo perché velleitario, oltre che ignobile, sarebbe un errore. Il trasferimento forzato dei palestinesi dalla Striscia, senza diritto al ritorno, vanta numerosi precedenti nel secolo scorso dalla Turchia di Atatürk all’Urss di Stalin alla tragica Partizione fra India e Pakistan. Trump non si sente certo da meno. Fa leva, con viltà, sulla disperazione di tante famiglie che vedrebbero in quell’esodo la loro salvezza dopo che Netanyahu ha distrutto Gaza proprio per renderla inabitabile. Basta la prudenza con cui il portavoce del Cremlino sospende il giudizio sul piano di deportazione (“aspettiamo dettagli”) per intuire che quando Trump si metterà d’accordo con Putin avremo ben poco di cui compiacerci.


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