La maggioranza sta discutendo una riforma della sanità che vedrebbe i medici di famiglia diventare dipendenti del Ssn. Una proposta che ha messo in agitazione il settore, ma che per Schillaci è un passaggio necessario

(Francesca Lequaglie e Virginia Tallone – editorialedomani.it) – Dopo settimane di rumors sulla riforma dei medici di famiglia, contraddizioni e diversità di vedute sono finalmente emerse. Il governo ci sta lavorando da mesi, sarebbe una svolta storica per la sanità italiana. Ma la possibilità la nuova proposta si areni è alta. Mercoledì a Palazzo Chigi c’è stato un vertice con la premier Giorgia Meloni, i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, il ministro della Sanità Orazio Schillaci e quello dell’Economia Giancarlo Giorgetti. La riunione è terminata con un nulla di fatto.
Da che non si sapeva niente, nel giro di poco tempo sono emerse due diverse proposte. La prima e più dibattuta, è un documento firmato dal ministro della Salute, Orazio Schillaci. Al centro della proposta i medici di famiglia che diventerebbero dipendenti del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e presterebbero servizio nelle nuove Case della Comunità. «Stiamo discutendo con le Regioni – ha detto il ministro –, ancora non c’è una posizione unitaria».
Alla riunione di governo sulla Sanità e la riforma dei medici di base era presente anche il presidente del Friuli Venezia Giulia e della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, che è d’accordo con la proposta ma non si è sbilanciato sull’orizzonte temporale. «Non so dirlo, sicuramente – ha rimarcato – noi dobbiamo avere una consapevolezza: quello che si fa oggi lo vedremo nei prossimi anni, non nei prossimi mesi».
L’altra proposta targata Forza Italia, contraria all’ipotesi del passaggio alla dipendenza, sostiene che i medici di medicina generale, mantenendo il loro attuale status di autonomi convenzionati, dovrebbero dedicare venti ore settimanali ai propri assistiti e diciotto alle Case di comunità. Fi è contraria alla proposta Schillaci per due motivi: secondo quanto spiega il capogruppo Paolo Barelli, i medici non accetterebbero mai di passare sotto l’Inps e i costi per lo Stato sarebbero molto alti.
La riforma Schillaci
L’esigenza di un cambiamento è emersa a più riprese, anche durante la pandemia, però le ipotesi di una riforma della professione sembrano scontentare almeno una parte di chi la pratica. Il documento è stato ottenuto dal Corriere della Sera il 3 febbraio, che ha potuto visionare un testo di ventidue pagine, specificando che si tratta di materiale in continuo aggiornamento.
I medici di famiglia diventerebbero dipendenti del Servizio sanitario nazionale, al pari degli ospedalieri, per cui si sta pensando a una nuova distribuzione oraria. Questa mossa dovrebbe servire a popolare e far funzionare le Case di comunità, le nuove strutture socio-sanitarie che entreranno a fare parte del Servizio sanitario regionale, finanziate con 2 miliardi di euro del Pnrr. «L’investimento finanzia la realizzazione di luoghi fisici di prossimità dove la comunità può entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria, sociosanitaria e sociale», si legge sul sito del ministero della Salute. Il progetto prevede che entro giugno 2026 vengano realizzate almeno 1.038 Case della comunità su tutto il territorio nazionale, obiettivo rimodulato rispetto alle 1.350 inizialmente previste. A poco più di un anno dalla scadenza, secondo i dati più aggiornati, risalenti però a giugno 2024, sono state completate solo 413 Case di comunità in 11 regioni. In ben 120 di queste non è prevista neanche l’attività di medici di assistenza primaria e in 137 non ci sono pediatri.
La riforma Schillaci riguarderebbe solo i nuovi medici, mentre quelli già in servizio potranno scegliere se rimanere liberi professionisti o passare al nuovo regime. Potranno continuare a operare nei propri studi, ma dovranno essere presenti anche nei nuovi presidi territoriali, garantendo la copertura dalle 8 alle 20.
Novità anche per il percorso di formazione. Oggi il medico neolaureato deve frequentare un corso di formazione triennale gestito dalle Regioni. L’idea dovrebbe essere quella di creare un corso di laurea specialistico di 4 anni, come avviene per i medici ospedalieri.
La riforma non piace a tutti
Molti professionisti del settore hanno criticato la proposta di Schillaci. «Andremo ad abitare queste Case di comunità, ma non si è ancora capito quali saranno le nostre mansioni», ha detto Luigi Galvano, vicepresidente dell’Ente nazionale di previdenza e assistenza medici (Enpam). «Non ci sono i medici: intanto potenziamo quello che facciamo attualmente», ha detto Mauro Mazzoni, segretario nazionale del Sindacato italiano medici del territorio (Simet). Secondo Fiorenzo Corti, vicesegretario nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), «per migliorare la sanità territoriale non c’è bisogno di questa riforma. Penso che la preoccupazione sia fare in modo che le Case di comunità vengano abitate».
Seppure i sindacati dei medici segnalino la carenza di personale, l’Italia ha quattro medici ogni mille abitanti, sopra la media Ocse. Va però tenuto conto che l’invecchiamento della popolazione riguarda anche loro: il 77 per cento ha più di 55 anni e si stima che tra il 2025 e il 2030 andranno in pensione 9.960 medici su circa 37 mila in servizio (dati Enpam).
«Il problema è l’assenza di una politica sanitaria. L’internalizzazione dei medici di base potrebbe essere uno dei passaggi, ma ce ne vorrebbero anche altri», ha detto Giuseppe Evangelista, infermiere in pensione e attivista del Comitato Mammut, che si batte per la riapertura di Villa Tiburtina a Roma, struttura sanitaria nel quartiere Rebibbia, chiusa nel 2012. Mammut ha creato uno sportello sanitario che fornisce supporto per problemi socio-sanitari relativi all’accesso ai servizi pubblici del Ssn.
Case di comunità: funzioneranno?
I lavori per le Case di comunità procedono a rilento, nonostante la scadenza del 2026. «È tutto approssimativo. Sono rimaste cattedrali nel deserto», ha detto Mazzoni, che ritiene che le più di mille Case di comunità non possano comunque coprire tutta la domanda di salute dei cittadini.
C’è poi il fatto che il Pnrr finanzia la costruzione e l’acquisto di strumentazione per i nuovi presidi, ma non beni, servizi e personale. «Tutto questo sarà in capo alle Regioni. Le migliori previsioni dicono che da qui al 2030 occorrerebbero 22 miliardi di euro per poter far partire bene questa riforma del territorio», ha detto Galvano. «Sono anni che lottiamo per la Casa di comunità di villa Tiburtina, i lavori termineranno a maggio, ma non si capisce come queste strutture saranno riempite e come funzioneranno», ha detto Evangelista del comitato Mammut. «Ci vorranno decenni perché vada a regime questa riforma. Manca una regia: bisognerebbe ripensare l’attività dei medici di famiglia che oggi si limitano a inviare persone agli specialisti. Il rischio è che le Case di comunità si trasformino in poliambulatori», ha aggiunto Evangelista, che ha spiegato che l’approccio socio-sanitario multidisciplinare e la medicina di prossimità dovrebbero essere al centro.
Su questo tema Schillaci è intervenuto: «Credo che sulle Case di comunità e sulla medicina territoriale non possiamo assolutamente arretrare, visto che da questa dipendono tanti problemi come il sovraffollamento del pronto soccorso».
Il rapporto di fiducia
La libera scelta del medico è una delle preoccupazioni principali di cui si sta alimentando il dibattito. «Si rischia di indebolire il rapporto fiduciario tra paziente e medico liberamente scelto», ha detto Galvano dell’Enpam. «Non vorrei che si creasse il servizio pubblico di medicina generale per i poveri. E chi vorrà avere un medico di libera scelta dovrà rivolgersi alle assicurazioni, che già si stanno muovendo per creare dei medici di famiglia privati», ha affermato il vicesegretario della Fimmg.
Anche su questo il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha rassicurato: «Nessuno vuol togliere la libertà al cittadino di scegliersi il proprio medico di famiglia. Però oggi la situazione così com’è non funziona».
Le aree interne
Un’altra delle criticità sollevate dai medici è quella legata alle aree interne: le nuove Case di comunità potrebbero non essere il modello adatto ai territori più isolati. «Dobbiamo smettere di pensare che l’Italia sia fatta tutta di grandi città. Ci sono circa ottomila comuni in zone montane e rurali. La proposta per i piccoli centri qual è?», si è chiesto Mazzoni del Simet. Gli ha fatto eco Galvano: «Ci saranno Case di comunità anche a trenta o quaranta chilometri dal domicilio del paziente, quindi si perderebbe il valore della prossimità».
Per Evangelista del comitato Mammut, il dibattito si dovrebbe spostare sulla politica sanitaria intesa come salute a 360 gradi. «Il numero di Case previste penso sia sufficiente, ma è ovvio che le aree interne avrebbero bisogno di organizzare la medicina di prossimità in un modo diverso», ha sottolineato Evangelista. «La prima cosa dovrebbe essere definire territorialmente l’ambito di intervento e poi decidere, ma molte volte non si raccoglie nessun input dal territorio. Non si può fare una Casa di comunità senza una comunità», ha detto Evangelista.