
(dagospia.com) – La faccia di Giorgia Meloni nella foto di rito del vertice di Parigi sull’Ucraina vale più di mille parole. Quel ghigno stizzito è la manifestazione manifesta del reale stato d’animo della Ducetta. Al netto delle dichiarazioni ufficiali.
La premier italiana non aveva alcuna voglia di volare a Parigi su “convocazione” del nemico Macron: non voleva dare al “Toyboy dell’Eliseo” il riconoscimento di mediatore naturale dell’Europa né a Salvini una nuova occasione per cavalcare il “tradimento” del Presidente del Consiglio, ormai pappa e ciccia con i poteri forti europei.
Alla “Thatcher della Garbatella” sarebbe utile un ripassino rapido di geopolitica: la Francia è l’unica potenza nucleare del Continente, e il solo Stato europeo a sedere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
L’Italia, al confronto, è da almeno tre decenni un junior partner costretto a subire, per mancanza di leadership e di credibilità, le decisioni prese sull’asse Parigi-Berlino.
Ma se la Meloni non voleva andare a Parigi, cosa è successo al punto da farle cambiare idea? Chi l’ha spinta a rivedere la sua ritrosia?
Da un lato la bravura (e paraculaggine) di Macron: è vero che il Presidente francese non ha messo al tavolo i Paesi baltici, come gli ha rimproverato la stessa Meloni, ma è riuscito a portare a Parigi in quattro e quattr’otto Keir Starmer, Olaf Scholz, Mark Rutte, Donald Tusk (oltre a Sanchez, all’olandese Dick Schoof, la danese Mette Fredriksen e il duo europeo Costa- Von der Leyen).
Particolarmente furbo è stato coinvolgere il premier britannico: il Regno Unito, sin dall’inizio della guerra in Ucraina, è stato l’alleato numero due, dopo gli Stati Uniti, di Kiev.
Ha sempre spinto per dare più armi a Zelensky, e anche adesso è il solo Paese, insieme alla Francia di Macron, disposto a mandare soldati “on the ground” per gestire la complessa fase di un possibile cessate il fuoco.
(Il ruolo di Londra come alleato più solido dell’ex comico ucraino ha avuto anche effetti nefasti: è stato l’allora premier Boris Johnson, nell’estate del 2022, a convincere Zelensky a non accettare il piano di pace mediato dal turco Erdogan, sulla base del fatto che l’Occidente non avrebbe mai abbandonato l’Ucraina).
Macron ha poi convocato la potenza economica più forte dell’Ue, la Germania, nelle vesti stropicciate del cancelliere uscente, Olaf Scholz, atteso domenica a una sconfitta bruciante alle elezioni parlamentari, che secondo i sondaggisti saranno vinte dalla Cdu di Merz e vedranno un consolidamento dei nazisti di Afd.
Infine, Macron si è assicurato la presenza del segretario generale della Nato, Mark Rutte. Ultimo, ma non meno importante, è stato l’arrivo di Donald Tusk, il presidente del Paese più solidamente atlantista del blocco continentale, la Polonia, così spaventata dai russi da annunciare, al tavolo di Parigi, che non invierà nemmeno un soldato in Ucraina, perché serviranno tutti per difendersi dalla futura, inevitabile, invasione da parte di Putin.
Davanti a cotanta “potenza di fuoco”, Giorgia Meloni ha dovuto ingoiare il rospo e accollarsi il viaggio a Parigi.
Ma l’intelligenza politica di Macron non è stato l’unico fattore a spingere la premier a superare le sue ubbie e partire. A convincerla è stato anche il suo inner circle, la fantomatica fiamma magica di Palazzo Chigi. Gli sherpa meloniani hanno infatti titillato l’ego della Ducetta dei due mondi, facendole presente che bucare un incontro così importante avrebbe avuto come risultato un ulteriore isolamento internazionale.
Meglio partecipare controvoglia, e magari porsi come “disturbatore” delle velleità macroniane, che stare a casa osteggiata dal resto dell’Ue. E così è andata: Meloni ha partecipato, portando in dote la faccia arcigna, operando come megafono trumpiano.
Una specie di Orban “Musk-erata” in gonnella: è arrivata per ultima, in ritardo, costringendo Macron ad aspettarla all’uscio dell’Eliseo, e poi una volta dentro ha marcato la sua distanza ideologica cercando di convincere i colleghi a un dialogo con gli Stati Uniti: “Gli Usa vogliono arrivare alla pace”. Un tentativo nemmeno troppo riuscito per dissimulare il suo sogno di essere il “ponte” tra Stati Uniti e Ue.
Quali che siano state le ragioni meloniane, è chiaro che nemmeno l’ambizioso Macron riuscirà a rimettere l’Ue al centro del villaggio.
A Riad sono cominciati i negoziati diretti tra chi decide davvero i destini dell’Ucraina: America e Russia. Il futuro del paese invaso da Putin ormai tre anni fa è solo un tassello di un puzzle geopolitico più complesso.
È fin troppo facile additare Trump come un burattino nelle mani di Putin, affascinato dall’autorità del “macellaio di Mosca” (copyright Biden): il tycoon e la sua squadra di falchi anti-cinesi, a partire dal segretario di Stato, Marco Rubio, hanno un piano molto più grande in testa.
L’obiettivo, da raggiungere tramite la tregua in Ucraina, è infatti un “decoupling” tra Russia e Cina: staccare Mosca dall’abbraccio mortale con Pechino per isolare definitivamente Xi Jinping, considerato il vero, unico, nemico strategico di Washington (la Cina è l’unico Paese in grado di competere con gli Usa per il dominio globale)
Ciò che gli europei in questo momento considerano pericoloso, il riavvicinamento di Mosca all’orbita euro-atlantica, rientra nel progetto studiato dall’amministrazione americana.
Spingere la Russia a riallacciare i rapporti con l’Europa significa privare la Cina del suo principale vassallo, nonché ottimo fornitore di gas a basso costo. Le sanzioni da un lato e la chiusura totale dei rapporti commerciali con l’Ue, dall’altro, hanno infatti costretto Putin a vendere sottocosto il suo petrolio e il suo gas a Xi Jinping.
Un repentino quanto scomodo riavvicinamento di Usa e Ue alla Russia serve, nell’ottica della Casa Bianca Trumpiana a indebolire la Cina e riportare il gas di Gazprom a casa: in Europa. Putin non vede l’ora: sciolto dal ricatto di Pechino, che si compra le sue risorse a due spicci, può tornare a venderle all’Europa a prezzi più alti…