Per effetto della norma la tutela del territorio passa alle Regioni che potranno abrogare parchi nazionali, cancellare vincoli e anche aree protette. Qualcuna sarà più virtuosa dello Stato, ma i confini non sono amministrativi

(MARIO TOZZI – lastampa.it) – Che Paese straordinario è il nostro: di fronte a una crisi ambientale mondiale che interessa l’intero pianeta e che si declina in maniera oggettivamente transnazionale (clima, impoverimento della ricchezza della vita, estinzioni di massa, morti precoci per inquinamenti), risponde polverizzando una potenziale risposta globale in una ventina di mini-risposte parziali, una per regione, che, è facile prevederlo, avranno un effetto nullo, quando non negativo. La nuova legislazione italiana in materia ambientale sarà divisa in 20 legislazioni differenti con effetti che vanno dal paradossale al drammatico, passando per il ridicolo, come se l’ambiente potesse avere confini amministrativi di un qualche senso.
Gli effetti saranno ancora più gravi da noi, che non siamo una nazione nata federale, come gli Stati Uniti, dove, peraltro, i reati ambientali sono reati federali, non statali, così come sono federali i grandi Parchi nazionali, svincolati dalle logiche locali, che proteggono addirittura il 25% del territorio nazionale. Da noi, invece, una Regione potrà, volendo, abrogare un parco nazionale e metterne uno regionale o, per eccesso, cancellare ogni vincolo ambientale e abrogare le aree protette. Non è un caso che le legislazioni ambientali seguano in quasi tutto il mondo regole generali nazionali: è molto più complicato difendere aree protette e imporre vincoli ambientali se a chiedertelo è direttamente il tuo elettore sul territorio, condizionando il suo consenso alla libertà d’azione che gli viene concessa.
Ma c’è un aspetto ancora più grave nel nostro, che è il Paese del record del dissesto idrogeologico (620.000 frane su 750.000 censite nell’intero continente europeo), è cioè che ogni regione avrà la possibilità di modificare o annullare anche i vincoli sui rischi naturali che oggi sono imposti a livello nazionale. Potrebbe una regione essere addirittura più virtuosa di quanto non lo sia la legge nazionale, ma potrebbe, invece, concedere licenze edilizie o condoni in aree a rischio. E come farebbe a riparare i danni di un’alluvione o di un terremoto, un domani, se le risorse dovessero essere solo regionali? E se, invece, valessero ancora ricostruzioni nazionali, per quali motivi la comunità si dovrebbe accollare i danni di chi ha disatteso scientemente le regole? E chi deciderà la gestione delle acque dei nostri fiumi più lunghi che attraversano diverse regioni? Per esempio se costruire o no una diga, trattenendo l’acqua che non arriverebbe più come prima, alla foce?
In pratica il trasferimento alle Regioni delle competenze e risorse in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema, ma anche dei beni culturali, di governo del territorio, di trasporti ed energia («la potestà di emanare… le norme fondamentali», mica poco) porterà a scelte territoriali differenti su temi cruciali, come i controlli ambientali, le politiche energetiche e la mobilità sostenibile. Così non saranno contemplati gli stessi diritti ambientali per tutti e si accentuerà quanto già accade, per esempio, per i controlli ambientali fra le diverse Agenzie regionali: ciò che non è consentito qui, potrebbe esserlo lì. E si accentueranno le differenze fra regioni che hanno capacità di intervento e spesa e altre che non ce l’hanno.
Ma anche come si è proceduto pone alcuni problemi, non ultimo quello costituzionale: nel 2022 gli articoli 9 e 41 della Costituzione sono stati integrati con l’ingresso di concetti prima assenti, come tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, imponendoli de facto e de jure fra i Principi Generali che, con l’autonomia differenziata, verrebbero disattesi. Come potrà la sola Regione Veneto, per dirne una, tutelare la laguna di Venezia? E chi ci proteggerà dalla caccia eccessiva, per la quale siamo già sotto procedure di infrazione comunitarie, se le regioni gestiranno totalmente la materia per rispondere alle logiche predatorie della lobby venatoria? E, in definitiva, chi specificherà i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), vista la difficoltà stessa di misurarli?
Si tratta di un prevedibile disastro, in un momento in cui c’era, invece, bisogno di risposte nazionali e europee coordinate che potessero raccogliere la sfida che la crisi ambientale pone al mondo intero. Come eviteranno di svendere i propri territori di pregio le regioni più deboli, specialmente al sud, se saranno strangolate dalle altre necessità, sul breve termine più impellenti? Perché non consentire di costruire sulle coste o dentro i parchi nazionali, allora, se in cambio se ne ha un temporaneo tornaconto? Chi impedirà di eliminare gli orsi “birboncelli” o i lupi “cattivi”, in assenza di principi nazionali saldi e inattaccabili? O di stuprare un paesaggio, perché tanto inutile? Qui non si tratta di ideologia, ma di buon senso: speriamo che quello che è mancato a chi ci governa non manchi agli amministratori sensibili e ai cittadini.