Con il nome russo di Kharkov è stata al centro di furiose battaglie tra tedeschi e sovietici. Stalin la voleva a ogni costo, Krushev rischiò il posto. Lo Zar segue la loro scia di sangue

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – Kharkov: città fatale, tentatrice e disperata, veglia da sempre al confine del pericolo, eterna città sul fronte; le onde devastatrici da Est e da Ovest vengono sempre a morire dentro di lei. Per prenderla e perderla bisogna necessariamente morire. Quante volte ha smarrito la sua aria elegante, si è insudiciata di fumo. Gli alti camini delle bombe sono saliti tra i suoi palazzi mulinando le loro nubi nere. Ogni cosa è morta in un grigio uniforme.
Gli eserciti tedeschi, sovietici, ucraini sono passati inseguendosi, scavalcando inutili reticolati di ferro, trincee di sacchi di terra sventrati, marciti, appiattiti dai cingoli dei carri. Ancora una volta, da est, lo spettro della guerra, praterie sprofondate dai mezzi corazzati e dalle artiglierie, pestate, trasformate in un impasto pecioso dove le pozzanghere riflettono il cielo nelle loro acque sporche. L’orribile fangosa guerra moderna questa città la conosce bene. La morte si insinua, svela la faccia maledetta come nella seconda guerra mondiale. Il suo fantasma si dissemina come una polvere nera. Schizza le sue macchie di fango. Pesanti autocarri cupi rotolano nella primavera: Ritirarsi! I russi avanzano e nelle trincee non ci sono più uomini. Sono morti, feriti, mutilati da due anni di eroismo senza respiro, senza soste.
La brigantesca macchina putiniana, dopo qualche esitazione, funziona ora a tutto ritmo, monotona come uno spietato lavoro di fabbrica. Nel cielo nuvole in lutto fuggono verso destinazioni ignote, Kharkov un’altra volta muore. Forse è già morta. Cannoni tuonano brutalmente vicini, più vicini. Il trambusto è più febbrile.
Corrono nei due fronti ordini spietati, di un egoismo contro natura: «Difendete Kharkov fino all’ultimo uomo, non deve cadere!» O: «Occupate Kharkov sarà il marchio della vittoria…», sono le parole con cui gli uomini impacchettano ciò che non sanno risolvere. Alla fine, dopo lutti infiniti, quello che cambierà sarà una vocale: la ucraina Kharkiv tornerà la russa Kharkov… forse per poco tempo. La guerra pare davvero un non senso, una pazzia.
Anche l’ordine di Stalin per Kharkov fu secco e breve: prendetela! Subito! Non sembrava difficile per l’Armata Rossa la quarta battaglia per la capitale della Rhur sovietica. I tedeschi ormai arretravano, la città era circondata da tre lati, si parlava negli alti comandi del Dio della guerra di decimazioni per fermare il panico. La 282ª divisione di fanteria tedesca, formata da novellini del tremendo macello russo a cui avevano affidato per necessità il punto chiave del fronte, si era sbandata.
Il capo di Stato maggiore, un colonnello, disperato, cercò di fermare i T34 sovietici con la pistola in pugno. I carri passarono sul suo cadavere e si diressero verso la città. I portoni della fabbrica dei trattori erano spalancati, gli altiforni ardevano ancora. Bastava un po’ di pazienza. Ma la quarta armata corazzata della Guardia del generale Rotminsov non poteva attendere. Al generale l’ordine di Stalin martellava in testa: voglio Kharkov subito.
Lui aveva paura, perché sapeva di aver commesso un errore. Ingannato da un rapporto ottimistico aveva annunciato agli addetti militari alleati che la città era già caduta. Non poteva smentirsi. Per questo attaccò.
Un calore avvampante dava le vertigini e percuoteva i campi di girasole, i carristi appoggiavano pomodori, raccolti ancora verdi nei campi, sulla corazza per farli maturare in un lampo. La nuvola di polvere era densa come una nebbia di alta montagna.
La grande strada che andava da Achryrka a Kharkov anche allora sembrava aperta, indifesa. I carri si lanciarono e finirono annientati nella trappola tedesca. Eppure il giorno dopo Rotminsov riprovò. Era come se sentisse quella voce dal rozzo accento georgiano: esigo subito Kharkov. Chissà se è identico l’ordine di Putin ai suoi generali-cortigiani. È pericoloso oggi come allora deludere lo zar.
Aveva ancora duecento carri armati nascosti in un immenso campo, cinquecento ettari, di girasoli, i fiori più alti di un uomo. I cingoli li spezzarono come una immensa falce. Centocinquanta carri russi restarono ad agonizzare nella steppa tra le pieghe di una sera purpurea.
La guerra ha le sue leggi bizzarre che gli uomini non sanno interpretare. Il comandante tedesco Von Manstein, l’uomo che non era riuscito a salvare Stalingrado, sapeva che la sua vittoria era inutile, per evitare un altro accerchiamento fatale ordinò la ritirata dietro il fiume Dniepr.
Sarà per questi ricordi che i russi, in questi mesi di offensiva, sono avanzati cautamente, metro dopo metro, macinando le sempre più deboli trincee ucraine. L’angoscia dell’accerchiamento, lo spettro di finire in una trappola dove migliaia di uomini restano rinchiusi in una sacca senza uscita, i generali di Mosca se la portano dietro dalla seconda guerra mondiale.
Kharkov quasi costò la carriera a Nikita Kruscev. Primavera del 1942, lo slancio tedesco sembrava esaurito davanti a mosca e Leningrado. Offensiva in Ucraina, dunque. A Kruscev era affidato politicamente quel fronte. Lui amava l’Ucraina, aveva fatto carriera lì, stringendola con pugno di ferro come piaceva al Capo. Tutto sembrava procedere bene.
Poi i russi caddero nella trappola tesa dai tedeschi che li avevano lasciati avanzare, nessuno ebbe il coraggio di convincere Stalin a bloccare l’avanzata. Una armata intera fu annientata, duecentomila i prigionieri. Kruscev fu convocato al Cremlino. Sapeva che Stalin cercava sempre un colpevole per non essere accusato delle sconfitte. È un metodo che è rimasto di moda al Cremlino. Era pronto a tutto, anche ad essere arrestato. Stalin lo invitò a pranzo, impassibile volle sapere le cifre della disfatta. Poi evocò un episodio della prima guerra mondiale, un generale zarista che era stato accerchiato e per questo giudicato e impiccato. Kruscev commentò: lo zar fece la cosa giusta. Stalin lo lasciò andare.