Quantcast
Channel: Politica – infosannio
Viewing all articles
Browse latest Browse all 4194

Alessandro Di Battista: “Laggiù c’è la Palestina…” calamita dei popoli arabi

$
0
0

Viaggio nel Medio Oriente in fiamme – La resistenza di Gaza vista da Aqaba, porto giordano in crisi per via del conflitto, ma dove i giovani puntano il dito nella direzione della Striscia

(Di Alessandro Di Battista – ilfattoquotidiano.it) – “Anche se dal 7 ottobre qui la vita è diventata impossibile noi stiamo tutti con i palestinesi”. Ad Aqaba il sostegno alla causa palestinese è pressoché unanime, eppure quel che sta accadendo in Medio Oriente ha colpito enormemente l’economia cittadina. Aqaba è l’unica città portuale della Giordania. Si affaccia sul Mar Rosso e confina a ovest con la città israeliana di Eilat e a sud con l’Arabia Saudita. Aqaba è abitata da poco più di 100.000 persone eppure viene considerata vitale per l’economia del paese, soprattutto per le sue potenzialità turistiche. La sua posizione è strategica, non a caso la regione venne conquistata dai romani che vi costruirono il porto di Ayla. Ad Aqaba partiva la via Traiana Nova, l’antica via voluta da Traiano per collegare Bosra, città nabatea scelta dall’imperatore come capitale della provincia romana dell’Arabia, al Mar Rosso. La via passava anche per Petra, oggi principale meta turistica della Giordania. Durante la dominazione araba Aqaba divenne luogo di ristoro per i pellegrini diretti a La Mecca. La città prima cadde in mano ottomana e poi venne conquistata nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, dalle truppe arabe guidate da Awda Abu Tayi, capo beduino e dall’allora capitano britannico Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia. La battaglia di Aqaba fu la prima vittoria araba sugli ottomani e la bandiera della rivolta venne issata sulle rovine del Forte della città bombardato dalla Marina britannica. La rivolta araba ebbe inizio quando al-Husayn ibn Ali, all’epoca governatore dell’Hegiaz, la regione occidentale della Penisola arabica, trovò l’accordo con Londra per cacciare gli ottomani. Gli ottomani, d’altronde, erano alleati degli Imperi centrali durante la Grande guerra. Il crollo dell’Impero turco-ottomano coincise con l’inizio del mandato francese della Siria e del Libano e di quello britannico della Mesopotamia e della Palestina. Nel 1921 Churchill, all’epoca segretario di Stato per le Colonie, affidò la parte orientale del Mandato della Palestina all’emiro Abd Allāh ibn al-usayn, figlio di al-Husayn ibn Ali, il quale divenne così Abd Allah I, sovrano del neo-Regno Hascemita di Giordania, nonché bisnonno dell’attuale re Abd Allah II.

Dalla Guerra dei sei giorni a oggi le autorità giordane, da un lato spaventate dalla supremazia militare israeliana e dall’altro legate economicamente ai paesi occidentali e alle monarchie del Golfo (la Giordania non estrae petrolio ma compra greggio dall’Arabia Saudita), hanno sempre mantenuto solidi rapporti con la Gran Bretagna, con gli Stati Uniti e con Israele. Parte dell’economia giordana è legata a Israele. Israele permette l’export giordano dal porto di Haifa. Israele le vende gas naturale. Inoltre la Giordania è uno dei primi tre beneficiari degli aiuti economici statunitensi in tutto il Medio Oriente e con Washington ha un patto di difesa. Vi sono militari statunitensi nel Paese. Il 28 gennaio scorso tre di loro sono stati uccisi da un drone lanciato dalle milizie filo-iraniane contro la base Usa segreta Tower 22, al confine con la Siria. E non è tutto. Nell’ultimo vertice svoltosi a Washington, l’Alleanza atlantica ha discusso dell’apertura di un proprio ufficio di collegamento ad Amman. Sarebbe il primo ufficio Nato in Medio Oriente. Questo ci aiuta a capire perché, dal 7 ottobre in poi, a parte l’aver accolto feriti e malati da Gaza e aver messo a disposizione aiuti umanitari per gli abitanti della Striscia – aiuti che molto spesso non sono arrivati a destinazione o perché bloccati dall’Idf o perché distrutti dai coloni israeliani – la Giordania, come del resto gran parte del mondo arabo, ha fatto poco o nulla per impedire la carneficina in atto nella Striscia.

Ma una cosa sono le classi dirigenti, un’altra i popoli. La causa palestinese non ha mai avuto così tanto supporto nel mondo arabo come oggi. Gli adulti guardano Al Jazeera e Al Jazeera mostra tutte le immagini di Gaza, anche le più crude. I giovani si informano via instragram o telegram e non dimenticano, né dimenticheranno. Dal 7 ottobre è crollato il turismo ad Aqaba. Ad Aqaba, porta d’accesso al deserto del Wadi Rum e alle rovine di Petra si vedono solo giordani. I turisti europei sono spariti così come gli israeliani che evitano di mettere piede in un paese arabo benché moderato come la Giordania. Il porto di Eliat, in Israele, è in crisi economica. Gideo Golber, Ceo del porto, ha annunciato il licenziamento del 50% degli impiegati. Gli attacchi degli Houthi verso le navi dirette a Eliat hanno spinto molti armatori a cancellare centinaia di viaggi. E dato l’immenso supporto alla causa palestinese da parte della popolazione yemenita (le manifestazioni pro-Palestina a Sana’a, capitale dello Yemen, sono le più imponenti al mondo) tutto lascia presagire che gli attacchi continueranno, nonostante i bombardamenti israeliani e anglo-americani.

I tassisti in cerca disperatamente di un cliente, i camerieri, spesso egiziani, che lavorano nei ristoranti semi-deserti, i ragazzi giordani che giocano a calcio al tramonto sulla spiaggia di Aqaba non hanno dubbi: “Deve finire l’occupazione israeliana”. I massacri infiniti e il doppio standard occidentale hanno spinto anche i più moderati a parteggiare per Hamas. Tra l’altro nessuno da queste parti chiama Hamas o il Jihad Islamico terroristi. Che piaccia o meno li chiamano resistenza. Nove mesi di sangue e crimini contro l’umanità da parte israeliana e il totale immobilismo politico dell’Ue, degli Stati Uniti e di gran parte dei paesi musulmani, hanno spinto milioni di arabi a ritenere la lotta di liberazione armata l’unica soluzione possibile. Ennesimo capolavoro di Netanyahu. A Petra, superato Al Deir, il monastero, uno degli edifici più strabilianti della città antica, c’è una collina con un chiosco in cima. “Venite a prendere il tè. Da quassù si vede la Palestina” recita un cartello. Il chiosco lo gestisce un giovane beduino. “Quella laggiù è la Palestina”, mi ha detto indicando il deserto del Negev, dal 1948 controllato interamente da Israele. “Nell’ultima settimana in quattro sono arrivati qui per il tè. Dal 7 ottobre non si lavora più, ma è nulla rispetto a quel che stanno soffrendo a Gaza. Speriamo che resistano”. Inshallah!

1 . continua


Viewing all articles
Browse latest Browse all 4194

Trending Articles