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Il dramma carceri senza amnistia

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Ecco il tabù che nessuno osa più infrangere

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Dall’abuso al disuso. Alle nostre latitudini succede di frequente, non ci piacciono le mezze misure. Ma in questo caso la misura estrema — per eccesso o per difetto — colpisce un istituto regolato dalla Costituzione, e colpisce altresì i principi costituzionali sulla funzione rieducativa della pena, sulla dignità che spetta anche ai detenuti, sul divieto di trattamenti disumani. Amnistia, ecco il tabù che nessuno osa più infrangere. Anche se i suicidi in carcere hanno toccato un picco (60 già quest’anno), il sovraffollamento pure (130 per cento, con punte del 177 per cento nelle prigioni minorili), mentre crescono gli atti di autolesionismo (184 in più rispetto al 2023), le risse, le rivolte. Una condizione che il presidente Mattarella ha definito «straziante», oltre che indegna d’un popolo civile. Del resto lo diceva già Voltaire: «Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri».

Ma si misura anche dai rimedi che lo Stato sappia offrire rispetto all’emergenza, ed è qui che viene in soccorso l’antico istituto dell’amnistia. I romani lo mutuarono dall’esperienza greca, sicché nei libri di storia si ricorda quella decretata da Trasibulo dopo aver liberato la Grecia dai trenta tiranni, o quella che propose Cicerone per sedare gli effetti delle guerre tra Cesare e Antonio. Amnistie politiche, come il provvedimento di clemenza approvato in Spagna a fine maggio, a beneficio degli indipendentisti catalani. O pochi giorni fa nel Nordest della Siria, per ridurre le pene inflitte ai cittadini imprigionati per terrorismo, spesso senza accusa né processo.

Ebbe un timbro politico, d’altronde, anche la prima amnistia della nostra storia nazionale, concessa il giorno stesso dell’unificazione: 17 marzo 1861. Così come la celebre amnistia firmata da Togliatti il 22 giugno 1946, con cui fu battezzata la Repubblica italiana. Seguita poi da un nuovo provvedimento di clemenza nel 1948, quando l’Assemblea costituente concluse il suo lavoro. Ma il perdono di Stato, in Italia, non cadeva soltanto nei giorni di festa. Per molto, molto tempo l’uso diventò un abuso, sovvertendo la massima di Jeremy Bentham, che ammoniva a fare buone leggi anziché creare «una verga magica che abbia il potere di annientarle». E infatti: quante amnistie vennero elargite nei primi 150 anni di storia patria? 333, una ogni semestre. E a scartabellare fra i loro destinatari, fra i reati perdonati, se ne trovano della più varia risma.

Come l’«esportazione interprovinciale degli animali bovini» (condonata nel 1920). Il taglio degli ulivi e l’abbattimento dei gelsi (sempre nel 1920). La «coltivazione di tabacco nell’isola di Sicilia» (nel 1867). Le infrazioni alla legge sulla requisizione dei quadrupedi (amnistie del 1890 e del 1891). L’evasione dell’imposta sul consumo di vino (nel 1921). Il furto di legna, su cui il giovane Marx scrisse nel 1842 una pagina indignata, e che cinquant’anni dopo venne amnistiato dal nostro giovane regno. O infine come il tormentone che ha messo in fila sei provvedimenti di clemenza, dal 1871 al 1951: il matrimonio dei militari «contratto senza la prescritta superiore autorizzazione». Del resto persino il fascismo, nonostante la sua faccia cattiva, non fece mai mancare agli italiani la loro dose di perdono: in vent’anni le amnistie, gli indulti, le sospensioni della pena furono in tutto 51.

Dopo di che interviene una cesura, un taglio netto. Dal troppo al nulla, com’è nei nostri costumi. Succede nel 1992, quando le Camere riscrivono l’articolo 79 della Costituzione. In precedenza, nel testo firmato dai costituenti, per licenziare un’amnistia o un indulto bastava un decreto del presidente della Repubblica, dopo una legge di delegazione. Ora occorre una decisione parlamentare adottata a maggioranza dei due terzi. Attenzione: è una soglia più alta di quella richiesta per qualsiasi revisione costituzionale. Significa che il Parlamento può trasformare il presidente del Consiglio in un monarca, basta raggiungere la maggioranza assoluta; ma deve coinvolgere buona parte delle opposizioni per contrastare il sovraffollamento carcerario con una misura di clemenza.

Un paradosso costituzionale, forgiato sulla scia di Tangentopoli, nel clima giustizialista che si respirava in quegli anni. Ma intanto l’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. E nel frattempo l’amnistia è divenuta una parola impronunziabile, sia a destra che a sinistra. Eppure non si tratta di liberare con qualche mese d’anticipo schiere di rapinatori e d’assassini. In galera ci vanno per lo più tossici e immigrati, per reati minori. O per i nuovi reati che il governo in carica sta fabbricando a giorni alterni (almeno 15, ma il conto è viziato per difetto). Mentre un disegno di legge all’esame della Camera vorrebbe aggiungervi il delitto di «rivolta» carceraria, punendo un gruppo di tre detenuti che non rientri in cella perché vorrebbe rappresentare al direttore una condizione di disagio. E mentre la cancellazione dell’abuso d’ufficio si risolve in un’amnistia di fatto per 3 o 4 mila pubblici ufficiali, come ha denunziato l’Anm. Facciamone dunque una campagna, una lotta, una battaglia. I diritti o sono di tutti o di nessuno.


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