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La giornata nera della democrazia

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Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Ministro della Giustizia Carlo Nordio

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – “Ha firmato, ha firmato”, esulta la tronfia Trimurti delle destre italiane. Sergio Mattarella ha aspettato l’ultimo giorno utile, il ventinovesimo, per promulgare la legge sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Ma infine l’ha fatto, non senza aver palesato i suoi dubbi. Carlo Nordio fa festa: già in viaggio verso le sudate vacanze, può finalmente godersi un altro meritatissimo spritz. Alla faccia di chi gli vuol male, dei giacobini dell’opposizione e anche dei poveri cristi che schiumano e crepano nelle patrie galere. Il ministro dell’evanescenza giudiziaria — prigioniero di un complesso d’inferiorità pari solo al suo spirito di rivalsa verso gli ex colleghi — ha finalmente portato a casa l’unico provvedimento che è riuscito a sfornare in ventuno mesi. Non è “la grande riforma della giustizia”, sulla quale sproloquia inutilmente dal giorno in cui ha messo piede a Palazzo Piacentini, nel dicastero di Via Arenula. Per lui è comunque “uno storico passo avanti”. Ma per la democrazia e per lo stato di diritto è invece una giornata nera. Da segnare nel calendario degli orrori e degli errori compiuti da questo governo. Questa non è una misura di pulizia giuridica o di “deflazione penale”, utile ad alleggerire e a sveltire il lavoro degli amministratori pubblici, liberandoli dal famoso “incubo della firma”. Questo, molto più banalmente, è un colpo di spugna su uno dei reati tipici dei colletti bianchi, che cancella in un amen 3.623 condanne definitive e apre un buco enorme nella rete predisposta dalle direttive europee contro il malaffare.

È vergognoso che ad autorizzare questo scempio sia stata Giorgia Meloni. Proprio lei, figlia di una destra sociale e radicale che — tra le innumerevoli nefandezze post-missine di cui deve ancora farsi perdonare — aveva avuto almeno il principio di legalità come unica dote civile da spendere nell’agorà repubblicana. Proprio lei, giovane militante del Fronte della Gioventù che aveva iniziato a fare politica attiva dopo la mattanza di Via D’Amelio in cui furono massacrati Paolo Borsellino e la sua scorta. Proprio lei, da donna del popolo diventata donna sola al comando, oggi fa questo regalo indebito alla casta, ai potenti della terra di mezzo, ai manovali della criminalità organizzata. Per la premier è uno stigma, un destino, una maledizione. Nell’autunno del 2022, durante la velenosa trattativa sulla lista dei ministri, fu capace di mettere in riga Berlusconi dicendogli “Io non sono ricattabile”. Solo due anni dopo, si piega al ricatto politico — e postumo — del fantasma del Cavaliere, che credevamo estinto ma non lo è. Silvio c’è, è il morto che afferra la viva, e attraverso i suoi eredi la inchioda alla “parola che tutto squadra”: la Giustizia, la guerra santa contro le toghe, i “Lodi Alfani&Schifani”, le norme-vestitino cucite a misura degli eletti e il garantismo di Palazzo usato come foglia di fico per nascondere la pretesa di impunità. L’alfa e l’omega del berlusconismo, che diventa alfabeto apocrifo del melonismo.

È un paradosso che sia proprio l’Underdog della Garbatella a portare avanti le crociate dell’Unto del Signore di Arcore. Ma è esattamente quello che sta succedendo, in questo eterno ritorno dell’uguale in cui la nuova destra, proprio come la vecchia, non combatte solo contro le procure, ma un po’ anche contro se stessa e contro i suoi fantasmi, contro i suoi totem e contro i suoi tabù. L’attuale Guardasigilli, con rispetto parlando, è suo malgrado l’utile idiota di questa specie di “esecuzione testamentaria”. Una specie di Golem Berlusconiano, incaricato di completarne il disegno. Il “pacchetto Nordio” — già spacciato infinite volte all’opinione pubblica e ai media — contempla l’intero catalogo delle diavolerie giudiziarie concepite a suo tempo nel laboratorio di Palazzo Grazioli dai Dottor Stranamore del Cav, Niccolò Ghedini e Gaetano Pecorella. Dalla separazione delle carriere tra giudici e pm all’istituzione di un secondo Csm di estrazione partitica per giudicare i magistrati, dalla tagliola sull’utilizzo delle intercettazioni al bavaglio alla stampa nel pubblicarle. La depenalizzazione dell’abuso d’ufficio è in teoria solo l’inizio di questo viaggio negli inferi, al quale adesso — nella migliore tradizione delle leggi <CF2002>ad personam</CF> — potrebbe aggiungersi addirittura un altro ambìto “golpetto”: l’immunità preventiva per i sindaci e i presidenti di Regione. La potremmo chiamare “norma-Toti”, visto che non solo il partito azzurro di Tajani, ma anche il Carroccio verde di Salvini ha pensato bene di sfruttare l’inchiesta sul presidente della Liguria, per proporre una specie di scudo penale per tutti i governatori.

L’obiettivo è sempre lo stesso: proteggere il Potere, con tanti saluti al Popolo, in nome del quale si pronunciano le sentenze. Nulla a che vedere con la fame di vera giustizia della gente comune. Nulla che migliori l’efficienza della macchina giudiziaria. Nulla che velocizzi i procedimenti penali. Nulla che snellisca il contenzioso e le cause arretrate. Per giustificare la cancellazione di uno dei più importanti reati-spia — attraverso i quali si arriva spesso ai reati più gravi di corruzione, peculato e associazione mafiosa — i “patrioti” usano a sproposito il partigiano Giuliano Vassalli e abusano del ricordo dell’eroe Giovanni Falcone. Una vera e propria impostura, etica e politica. E se il presidente della Repubblica ha firmato la legge — per dovere istituzionale e per “non manifesta incostituzionalità” — questo non significa che la medesima non sia in contrasto con le sentenze della Consulta e con le raccomandazioni formulate nel 2000 dal Consiglio d’Europa. Lo ha fatto capire alla presidente del Consiglio, il Capo dello Stato, e lo spiegherà anche al ministro della Giustizia, se e quando deciderà di riceverlo al Quirinale. Lo dice con chiarezza l’Anm: d’ora in poi i cittadini sono più soli. È proprio così: quel reato — previsto dall’articolo 323 del Codice, corretto e opportunamente “tipizzato” con ben quattro revisioni tra il 1990 e il 2020 — era stato introdotto proprio per tutelarli dai comportamenti scorretti dei pubblici ufficiali.

C’è da indignarsi, ma in fondo non c’è da meravigliarsi. Il cinismo è di casa, tra le tre destre. Mentre i politici si scambiano doni tra “pari” e combattono la calura d’agosto con gli aperitivi, i detenuti muoiono come e più di prima. La legge salva-colletti bianchi in Gazzetta Ufficiale, il decreto-carceri in Consiglio dei ministri: sarà pure una casualità temporale, ma fa veramente paura questo “uno-due” normativo, consumato in appena quarantott’ore. Chi ci governa ha davvero un sasso nel cuore, se ha potuto servire al Paese questa mostruosa “doppia morale”, che si cura dei forti e se ne frega dei deboli. Le “disposizioni urgenti” varate per fronteggiare l’emergenza carceraria gridano vendetta perché non fronteggiano niente. Dopo 65 suicidi in cella in sette mesi, e con 14.537 derelitti in eccesso rispetto alla disponibilità di posti, l’unico rimedio che questa “Coalizione degli Ignavi” riesce a immaginare è l’assunzione di mille guardie penitenziarie in due anni. Nient’altro che questo, a parte un codicillo che rende ancora più pelosa l’anima del legislatore: le telefonate che i detenuti possono fare ai familiari in un mese passano da quattro a sei. Di fronte all’immensa disperazione dei ragazzi che si impiccano alle sbarre o si soffocano con le buste di plastica, quei geni di Meloni e Nordio non hanno chiesto consiglio sul da farsi al Garante dei detenuti o ai cappellani delle carceri. Hanno pensato alla vecchia pubblicità della Sip: “Una telefonata ti allunga la vita”. Figuriamoci due.

“Fanno pena”, come ha titolato giustamente il Manifesto. Sul sovraffollamento disumano delle nostre prigioni non ci si deve aspettare proprio niente da un esecutivo che in meno di due anni, tra decreti sicurezza e altri deliri sparsi, ha introdotto 23 reati nuovi e 10 inasprimenti di reati già esistenti. Dai rave-party alla gestazione per altri, dalle rivolte carcerarie alle proteste dei minori nei centri di accoglienza, dai blocchi stradali all’occupazione di immobili, dalla cannabis light alla resistenza a pubblico ufficiale per fermare opere pubbliche o infrastrutture strategiche. Un Codice Penale parallelo, ispirato da isteria securitaria e ideologia carceraria. Ma soprattutto codificato sui “nemici appositi”: individuati e selezionati con precisione chirurgica, da una capocrazia sempre più reazionaria e sempre più autoritaria.


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