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Lukashenko, asso di Putin

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Il micro-Stalin lunatico di Minsk era riuscito a farsi alleviare le sanzioni fingendosi mediatore tra il Cremlino e l’Occidente. Oggi, con soli 50 mila soldati è prigioniero del suo padrone

Lukashenko, asso di Putin

(Domenico Quirico – lastampa.it) – La gioia del Potere, Alexandr Lukashenko la conosce da trentanni. Non quella furtiva, instabile, ora profusa ora negata, ma quell’altra più certa, profonda, perenne, uguale, per così dire inesorabile, quella che pensa o si illude di poter far adorare perfino il dispotismo. Qualcuno l’ha paragonata alla dilatazione di un’altra vita nella vita. Eppure se risale i trentanni della sua esistenza di autocrate bielorusso, per lontano che arrivi, perfino agli esordi (anni Novanta, l’Urss si autodistrugge e lui si unì al “partito comunista per la democrazia’’ girando sempre con una valigetta in mano in cui affermava di custodire le prove di mostruose corruzioni e si inventò perfino un attentato che voleva chiudergli la bocca…), ebbene, anche allora non trova nulla che assomigli allo stato attuale, né ricorda di aver sospettato che potesse verificarsi qualcosa di simile. Intendo, la guerra tra la Russia e l’Occidente, gli ucraini che invadono il territorio del suo “amico’’ Putin, i cigolii dei bunker atomici che nessuno vuole aprire ma che forse…nulla di peggiore può capitare a uno come lui, che diventare indispensabile a un alleato troppo potente, non avere margini, non poter fare il doppio o il triplo gioco.

Ecco che il Potere, ora, gli appare una specie di pavida sete, un tesoro che un ignoto padrone, il fosco zar di Mosca o la vendicativa coalizione occidentale che sostiene i suoi nemici interni, gli può togliere da un momento all’altro e che, questo lo sa per certo, da sempre, non potrebbe lasciare senza con esso perdere la vita. Per la prima volta il delizioso Potere lo accascia di una sovrumana fatica.

C’è, sapete, quella tortura cinese che è buona metafora della condizione dell’uomo: il prigioniero più si muove più stringe dolorosamente le corde che lo legano e lo martirizzano. Così è oggi il deposta che si fa chiamare dai suoi sudditi “batka’’, papà. Che arrampicato su un trattore in una sequenza celebre, prometteva ai suoi, con arroganza metafisica, che non li avrebbe abbandonati “neppure dopo la morte’’!

Dunque: può esistere Lukashenko senza che esista Putin? Risposta facile. Ma provate a rovesciare i termini della domanda e avrete una sorpresa: siete sicuri che possa esistere Putin senza che esista Lukashenko?

Attenti però, in questa guerra europea così zeppa di bugie, miraggi e trompe- l’oeil, a non sottovalutare l’uomo di Minsk, ridurlo a comparsa, a ghiribizzo parlante, a cartapecora sopravvissuta, una specie di micro Stalin stregonesco e lunatico, innamorato del tenersi in piedi sul filo che spartisce sovietismo riciclato e populismo avanguardista, violenza brutale e astuzia, senso e non senso. Certo, i due si assomigliano: il ruolo tentacolare dei servizi di sicurezza, il controllo della informazione, la creazione di una piccola casta a cui si concede di arricchirsi ma che è sempre a rischio di punizione, le sedute pubbliche di accusa dei funzionari incapaci, le misteriose ma non troppo eliminazioni degli avversari pericolosi, la promessa dell’ordine per difendere dai pericoli di un mondo percepito come ostile.

Ma il modello Lukashenko non è una mini copia del putinismo, ammesso che esista al di là della figura che lo incarna e forse lo esaurisce. La loro alleanza o sudditanza non è una sacra famiglia senza sbavature. Al contrario. Putin promette restaurazioni di potenza, non il ritorno alle parrucche comuniste dell’Ancien Régime. Il bielorusso ha scelto un messaggio drasticamente passatista, la nostalgia dell’Unione Sovietica, una supposta e antica “douceur de vivre”, i trattori e gli altoforni. Vuole impagliare le spoglie di un’epoca che si batte per non scomparire del tutto. Il fumo che vendeva, e vendeva con brio, è un kolkoz gigante e fonderie con falce e martello sul frontespizio. Il tutto condito con arie da bravaccio egocentrico e finto buon senso paesano.

Fino a un certo punto è riuscito a fare il prestigiatore e restare a galla tra Occidente e Mosca, proclamava di non voler diventare un satellite, ma accusava la Nato di ingerenze minacciose, facendo l’eco a Putin. Acrobazie. Senza il sostegno economico russo, senza il petrolio a basso costo che lui rivendeva in Europa, come poteva tenere in piedi imprese decotte e modernizzare l’agricoltura? Maidan, la Crimea e l’inizio silenzioso della guerra in Donbass lo hanno ridotto, non solo lui, a reliquia spolpata di un’epoca defunta.

Ha cercato di prendere, sotto voce, le distanze dalla politica aggressiva di Mosca, proponendosi perfino come mediatore con l’Ucraina. Sembra incredibile ora: con qualche scenografica “liberazione” di dissidenti bastò per ottenere l’ alleggerimento delle sanzioni e gli occhi dolci dell’Occidente, sempre realista quando gli fa comodo.

La Storia gli è straripata addosso con i moti del 2020. Si fa vedere nei suoi sedici palazzi con il mitra in mano, reprime con furore ma ormai è nelle mani del Padrone. Impossibile fingere. Senza il Cremlino il suo futuro è una dacia nei dintorni di Mosca. In questo cozzo di giganti il suo micro esercito di 50 mila uomini non è nulla. Della sua gastronomia ontologica a Putin non serve nulla: la Bielorussia è l’ultimo modello esistente della sua concezione di Stato-tampone, di spazio vitale tra superpotenze, una caserma per riorganizzare la Wagner, un terreno per avvicinare le minacce atomiche.


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