
(di Franco Failli – ilfattoquotidiano.it) – Da qualche tempo è diventato abbastanza comune sentir parlare di “serendipità”. A questo termine, che somiglia molto foneticamente a “serenità”, sono di solito associate sensazioni piacevoli, legate al suo significato di “trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra” (Wikipedia). Si dà spesso per scontato, e secondo qualche dizionario fa proprio parte della definizione del termine, che nella cosa trovata per caso ci si sia imbattuti mentre si faceva una meritoria attività di ricerca rivolta al progresso dell’umanità, e che sia quindi una cosa bella. Ma non è detto che sia così.
Si pensi alla recente “legge bavaglio” secondo la quale gli organi di informazione non possono più pubblicare i testi non solo delle ordinanze di custodia cautelare ma anche di obbligo/divieto di dimora, di interdizione dallo svolgimento di un’attività o di obbligo di firma. Tutti fatti che, secondo il testo di legge, possono solo essere “riferiti tramite una parafrasi”. “Parafrasi” che, in base a quanto visto accadere finora su molta stampa, credo siamo autorizzati a considerare sinonimo di “invenzione”.
È evidente la volontà di mettere una mano sugli occhi del pubblico che non deve vedere le malefatte di personaggi amici di certa “politica” (le virgolette sono d’obbligo, perché la vera politica è un’altra cosa) o dei “politici” stessi.
Ma non ho trovato molti riferimenti al fatto che un provvedimento del genere, in modo (forse) non cercato (ancora) ottiene anche un altro effetto, ovvero quello di impedire di conoscere tempestivamente le vere motivazioni di provvedimenti restrittivi presi nei confronti di personaggi scomodi: oppositori, dissidenti, attivisti, e tutti coloro che esprimono pensieri o compiono azioni irritanti per il potere. Cosa sapremo dei veri motivi per cui alcuni di loro dovessero essere privati parzialmente o completamente della loro libertà?
E il prossimo passo potrebbe essere quello di vietare qualunque pubblicazione di quel tipo di notizie, secondo una progressione ben raccontata dalla metafora della rana che si accorge di star cuocendo in un’acqua sempre più calda solo quando non può più saltare fuori dalla pentola.
Non è una distopia. Pensiamo al Daspo imposto a due persone la cui unica azione è stata quella di stare zitte e ferme in una pubblica via con dei cartelli addosso (vedi l’articolo: “Manifestano pacificamente a Venezia. Daspo urbano a due attiviste di Ultima Generazione”). E quei cartelli non contenevano una istigazione a compiere dei reati. C’era solo scritto: “A Valencia è durato pochi giorni. E a Venezia?” e “Stiamo correndo verso il collasso”. Considerando la limpidezza del messaggio, tra poco immagino sarà considerato turbativo dell’ordine pubblico anche stare fermi in strada sotto la pioggia mostrando un cartello con la scritta “Sta piovendo”.
Piove, ma guai a pensare che sta piovendo. O forse solo guai a pensare. Niente di nuovo sotto il sole (o sotto la pioggia, in questo caso).
Dice Alessandro Barbero che non torneremo a vestirci in camicia nera, o a fare il sabato fascista. Probabilmente è vero. Ma esiste oggi qualcosa di equivalente? Credo sia questa la domanda che dobbiamo porci. A cosa stiamo assistendo, e in cosa siamo coinvolti, senza che ci accorgiamo che sono cose che solo pochi anni fa sarebbero state impensabili? Qualcuno ricorda quanto si manifestava e protestava contro la guerra degli Usa in Vietnam? Qualcuno ricorda quando chiunque sceglieva coscientemente i giornali da leggere perché vi trovava una realtà descritta da punti di vista completamente diversi?
Oggi i discorsi dal balcone di Piazza Venezia ci appaiono tronfi e grondanti di retorica. Improponibili. Ci viene da chiederci come sia stato possibile che così tante persone ne siano rimaste affascinate e abbiano esultato nel sentirli pronunciare. Chiediamoci allora di cosa esultiamo, o anche solo sopportiamo, oggi, che nel futuro farà dire ai posteri: “Ma come è stato possibile?”.