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L’America al bivio della storia

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Dal numero di Limes “Musk o Trump, America al bivio”

Palm Beach, Florida (Stati Uniti): sostenitori di Donald Trump

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – L’America come la conoscevamo non è in crisi. È finita. Con essa il mondo americano. L’umanità non è né sarà a stelle e strisce. Ma l’America ha ancora le risorse per restare in testa al gruppo. O per immaginarsi di esserlo. Per intendere, obbligatorio ripartire dallo zenit del progetto America per scivolare verso il nadir, ammesso che la superpotenza abbia davvero toccato il fondo. E noi altri occidentali con essa.

Il regime semiglobale che dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano modellato su sé stessi non comprendeva solo l’Occidente. Includeva il nemico sovietico, che si legittimava in quanto antiamericano. E ne era segretamente gratificato. Si parametrava sull’egemone, di cui quale alter ego era il super-satellite. L’altra faccia della stessa Luna.

L’Unione Sovietica era ricompresa dagli Usa nella medesima equazione mondiale, espressa nel contenimento reciproco dei due troppo asimmetrici rivali, all’ombra della loro unica simmetria, la bomba. A Washington vigeva il postulato di Eisenhower: niente di peggio che sfidare l’Urss nell’ennesima guerra per finire tutte le guerre perché ne usciremmo comunque sconfitti. Soprattutto se vincessimo. Dovremmo assimilare uno spazio immenso che finirebbe per assimilare noi, sfigurandoci in Stato caserma. Fine del jeffersoniano “impero della libertà” oppure fine del mondo. Non un’alternativa invidiabile.

Il suicidio sovietico, che l’ultimo presidente adulto degli Stati Uniti, George Herbert Bush, cercò di sventare fino a cinque minuti dopo la mezzanotte, sembra dare ragione a Eisenhower. “Ora siamo tutti sovietici”, stabilisce l’americanizzato storico scozzese Niall Ferguson, che nella piaga del wokismo legge la rovina della patria adottiva.

Butler, Pennsylvania (Stati Uniti): Donald Trump e Elon Musk durante la campagna elettorale

Nel 2020 il suo collega di Princeton Harold James aveva già diagnosticato la decomposizione dell’America tardo-sovietica. Oggi auscultando il cuore depresso del potere washingtoniano assediato dal vendicativo ritorno di Trump scopriamo che tende alla tachicardia, scandita da extrasistoli patologiche. Sintomi di pensiero disperato e finale che invita a giocarsi il tutto per tutto. Suona più o meno così: “Non assisteremo inermi al nostro declassamento. Faremo la guerra alla Cina, se serve anche alla Russia. Perché? Perché sì. Certo non per assimilarne il miliardo e mezzo di umani”.

Finale degno di Stranamore. Se però ai tempi della Guerra fredda ci si poteva scherzare sopra, adesso l’apocalisse non suscita ironie. La terza guerra mondiale è argomento di conversazione al desco familiare, senza l’accompagnamento musicale di We’ll Meet Again, melodia consolatoria scelta da Stanley Kubrick quale sigillo del suo capolavoro e che la Bbc volle stoccare nel suo bunker antiatomico per rallegrare i superstiti della guerra nucleare. Non vorremmo che corrotto dal neomarxismo pop che circola nelle vene del colosso a stelle e strisce qualcuno pensasse di dimostrare l’assunto di Marx ed Engels per cui tutto ciò che è solido svanisce nell’aria.

Palm Beach, Florida (Stati Uniti), 6 novembre: Donald Trump festeggia la vittoria

L’America in partenza per Marte sta atterrando su Terra. Nata per raddrizzare il legno storto dell’umanità, dimentica del monito kantiano per cui da noi umani nulla si può trarre di perfettamente dritto, si sta adattando al fallimento delle sue utopie. Con dolore. Senza avere il coraggio di ammetterselo, ha avviato le manovre di rientro dal cielo stellato alla polvere terrestre, nostra sostanza. Dall’ipermorale dell’impero del bene al nichilismo pragmatico che trasforma i mezzi in fine. Come spiega Fabrizio Maronta, l’America reale si congeda dall’ideale: constatiamo “il divorzio della sua forza bruta — ancora temibile — dall’obbligo morale”.

L’America aurea, entro le cui larghe braccia siamo fortunosamente finiti per tre generazioni, non è più tra noi. Assistiamo al doloroso parto di un’America che non le assomiglierà. Segnata dall’intreccio fra mutazioni socio-culturali e strategiche che si condizionano a vicenda e disegnano sentieri finora interrotti verso nuovi, inesplorati orizzonti. Dalla liberaldemocrazia alla governanza via fusione di Stato e società civile. Dalla pulsione globalista al nazional-protezionismo.

Dall’America mondiale a quella “marziana”. Le virgolette marcano il pragmatismo inscritto nel delirio multiplanetario degli hippo-cosmisti à la Musk: miriamo altissimo perché se stiamo fermi precipitiamo in basso. Non vorremmo che per non finire assassinati dai robot in rivolta dimenticassimo che cavalcare il caos ci porta dritti alla guerra atomica. Si va su Marte come Colombo verso le Indie. Quale America scopriremo non lo sa nemmeno Musk.


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