Perché non reagiscono, perché non si alzano e se ne vanno, mi chiedevo ingenuamente mentre nella rotonda di Capitol Hill il nuovo presidente approfittava della cerimonia del giuramento per […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – “Attacca, attacca, attacca. Non ammettere mai nulla, nega tutto. Devi essere disposto a fare qualsiasi cosa a chiunque per vincere”. I consigli di Roy Cohn, mentore del giovane Donald Trump
Perché non reagiscono, perché non si alzano e se ne vanno, mi chiedevo ingenuamente mentre nella rotonda di Capitol Hill il nuovo presidente approfittava della cerimonia del giuramento per mollare dei sonori ceffoni al predecessore Joe Biden e alla sconfitta Kamala Harris, seduti accanto. Certo che non avrebbero potuto e non soltanto per preservare quell’immagine di unità rituale delle istituzioni che il popolo americano giustamente pretende nella solennità del passaggio dei poteri. Il fatto è che i finti sorrisi stampati sulla facce dei due big democratici fanno parte di una consuetudine a cui l’establishment si aggrappa soprattutto quando si trova a mal partito: stare comunque al gioco (non vale per Trump che la volta precedente il tavolo lo ha rovesciato). Vero è che con uno sguardo più cattivo si sarebbe potuto notare che sotto la sedia del presidente uscente si snodava una lunga coda di paglia. Con quale coraggio, infatti, Biden avrebbe potuto contestare la grazia di massa concessa dal padrone della Casa Bianca agli assalitori di Capitol Hill quando lui si era portato avanti con il lavoro concedendo analoga clemenza al figliolo scapestrato? Oltre che a figure eminenti della sua amministrazione per sottrarle alle grinfie del vendicativo tycoon? Umanamente si inorridisce per le foto dei migranti in catene postate su ordine dello Studio Ovale, a uso e consumo del popolo Maga. Perché mai quella stessa indignazione non scattò quando a cura della presidenza Biden furono firmati ben 270 mila provvedimenti di espulsione per altrettanti irregolari? Forse perché quelle non furono chiamate deportazioni e si evitò di vantarsene attraverso le più crude immagini? Se brutalità e ipocrisia sono le due facce della stessa medaglia forse diventa più comprensibile il silenzio del Partito democratico che, pur sconfitto, dovrebbe, secondo l’abc della politica, concedere qualche segnale di reazione al proprio elettorato per cercare di scuoterlo dopo la batosta subita. Anche perché i Repubblicani hanno una maggioranza numericamente fragile nei due rami del Parlamento e tra diciotto mesi le elezioni di metà mandato potrebbero rovesciare i rapporti di forza. Purché ciò avvenga con una vigorosa riscossa e non semplicemente lucrando sugli errori di chi governa. Se però si vuole stare al gioco si eviti poi di frignare accusando chi con una mano distribuisce le carte e con l’altra impugna un nodoso bastone.
Nei “Ritratti del coraggio” John F. Kennedy (il cui nipote negazionista dei vaccini regge la Sanità trumpiana) racconta di come il senatore Oscar W. Underwood, dell’Alabama, alla vigilia della Convenzione democratica del 1924, fu esortato dai suoi consiglieri a non dire nulla che avesse potuto offendere il Ku Klux Klan, allora una nuova potenza nascente negli stati del Sud. Al contrario, il senatore si batté con vigore, ma senza successo, per far includere nel programma del partito una clausola ostile al Klan; come risultato la delegazione della Louisiana e quella di altri Stati meridionali lo piantarono pubblicamente, e da quel momento le sue possibilità per la Presidenza si ridussero a zero. E non poté neppure essere rieletto al Senato. Scrive Kennedy che “se il senatore Underwood si fosse conformato nell’Alabama alla sana regola politica di aver l’aria di dire qualcosa senza dirla, non vi sarebbe stata nessuna vera opposizione alla sua permanenza in Senato per il resto della sua vita”.