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Dietrologia delle riforme

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(Umberto Vincenti – lafionda.org) – Le riforme sono le tre perle del governo Meloni: complessivamente poco comprensibili, tanto più se  passate sotto il filtro dell’interesse comune dell’Italia (che mi piacerebbe non fosse più ossessivamente appellata come «Nazione»). Nessuna delle tre risolverà quei gravi problemi alla cui soluzione definitiva il governo e i governativi giurano che esse pur perverranno. Come al solito, occorre, per decifrare il camuffamento, cercare di andare sotto traccia. Ma la ricerca non è qui svolta per simpatia dell’opposizione perché anche questa camuffa. Anzi, il primo ad aver camuffato è stato il centro-sinistra quando nel 2001 ha fatto approvare, a maggioranza risicata, e solo per batter la Lega, la riforma dell’art. V della Costituzione, da cui nasce la lettura ‘veneta’ di autonomia differenziata, ora precipitata nel ddl Calderoli. L’attuale PD è dunque in malafede quando si scaglia contro questo ddl, come se l’unità nazionale non fosse stata minata in principio da un’azione della sua area politica e per pura speculazione elettorale: memoria corta, cioè malafede.   

 Malafede anche nella maggioranza. Tre riforme separate, ma intrecciate. Vi è un doppio fil rouge: da una parte, troviamo la ricerca di coesione da parte di un’alleanza, a cui non sono estranee tensioni che potrebbero emergere pericolosamente per i soliti calcoli legati al consenso elettorale e al mantenimento della leadership (traballante è quella di Salvini); dall’altra, spuntiamo il desiderio di togliere peso politico-istituzionale a un’opposizione ora in difficoltà e, però, in grado di riemergere in qualunque momento a causa della volubilità dell’elettorato italiano.

 È difficile negare che, in questo contesto, premierato e autonomia nascano dal conflitto all’interno della maggioranza. Lo zoccolo duro dell’elettorato leghista vuole che i territori del nord abbiano più potere decisionale e (soprattutto) più soldi. Ai Fratelli il disegno non piace tanto, anzi è perfettamente incongruo rispetto alla loro cultura istituzionale, ma conta mantenere il potere: ergo, l’antidoto è attenuare l’effetto autonomia rafforzando, e parecchio, il presidente del consiglio. La formula ha sì un modello nobile nella Costituzione USA, che articola il pubblico potere modulandolo tra Stato federale e Stati federati; però, se questo è l’obiettivo, la struttura costituzionale del 1948 ne risulterebbe indirettamente (e furbescamente) stravolta, senza che sia stato dato spazio e tempo alla ponderazione necessaria in opere di ingegneria costituzionale di questa importanza. 

 Come si vede, la diade ddl Casellati-ddl Calderoli finisce con l’incidere in profondità sugli assetti costituzionali consegnati dai costituenti agli Italiani. Il governo non lo dice, anzi quasi minimizza. Ma non è così. Allora se si voleva provare ad ottenere un tal ribaltamento, occorreva prepararlo seriamente e verificarne la fattibilità, coinvolgendo non solo l’opposizione, ma esperti indipendenti, non lacchè di partito, di chiara, autentica, fama, poi portando la discussione nelle piazze. Ce ne sarebbe gran bisogno. Ma orizzonti di piccolo cabotaggio impediscono di tracciare rotte di trasformazione e di risveglio popolare. La conseguenza è che il premierato potrebbe essere bocciato dal popolo in sede referendaria: probabilmente lo sarà  e resterà un enigma capire  a chi avrà giovato un tal procedere inconsulto. Inconsulto anche per i Fratelli perché, se venisse approvata l’autonomia, e respinto il premierato, l’esito si sconterebbe elettoralmente.

 Ma il premierato è nulla più che un escamotage, né politicamente né costituzionalmente fondato, per arginare il potere, meglio i poteri, del Presidente della Repubblica. Qui c’è uno spaccato di verità istituzionale da cogliere, questo: il Capo dello Stato ha, sulla (o nella) Carta, una gamma di poteri tutt’altro che neutri, di cui occorre prendere atto prima di gridare all’abuso. Ma questo non significa che la scelta dei costituenti sia stata felice o congrua rispetto alle esigenze di equilibrio tra organi costituzionali. Lo squilibrio si è manifestato in tutta evidenza con gli ultimi presidenti che, anche a causa di un ceto politico inidoneo, hanno assunto una rilevanza in aumento progressivo, all’interno e, particolarmente, in sede UE, dove si è avvertita la necessità di avere un riferimento stabile su cui far sponda per accreditare le politiche europee. I presidenti si sono adeguati senza difficoltà e hanno ottenuto, a loro volta, sostegno da Bruxelles, specie nella formazione dei governi italiani. Ciò ha condotto a una torsione del sistema che ha fatto lievitare, anche attraverso una regia accorta, il prestigio e l’autorità dei presidenti italiani.  

 Di questa trasformazione ha beneficiato, più di tutti, il PD che, per fortuna e maggior abilità (evidente nella rielezione di Mattarella), ha potuto disporre al Quirinale di un proprio rappresentante, con tutte le conseguenze. Ciò ha alimentato il revanchismo del centro destra, che ora ha risposto con il ddl Casellati. Grosso modo le cose stanno così. Altro che interesse alla stabilità dei governi, altro che interesse nazionale.

 Ma, allo stesso modo, in malafede è ancora il centro sinistra, che si erge immancabilmente a difesa del Presidente della Repubblica, predicandone l’insostituibile funzione di garanzia e rimarcandone l’indipendenza; ma anche tacendo la circostanza, non proprio irrilevante, che, morta la prima Repubblica, i Presidenti eletti non sono mai stati di area centro-destra. Anche qua lo squilibrio parrebbe innegabile e necessario porvi rimedio. Sarebbe stato auspicabile trovare un compromesso: per esempio, riducendo la durata del mandato presidenziale, vietando l’iterazione del mandato, magari consegnando la nomina, a poteri immutati, all’elezione da parte del corpo elettorale. In una democrazia questo ci sarebbe atteso, che si discutesse pubblicamente nel presupposto condiviso che qualcosa da cambiare vi sia (e, forse, vi è più di qualcosa).

 Resta la riforma della giustizia che, in parte, è pure riforma costituzionale. Credo che sul punto abbia ragione il Prof. Coppi: è una falsa riforma che, nei fatti, cambierà poco o nulla lo stato dell’amministrazione della giustizia, specie se lo si considera dal punto di vista del cittadino. Allora non c’è veramente nessuna riforma della giustizia, ma si vuole (illusoriamente) contenere il potere della magistratura nel confronto con il ceto politico, meglio di una sua parte, quella che è stata creata da Silvio Berlusconi con la sua discesa in campo nel 1994. Ma come negare che la magistratura abbia sorvegliato in questi decenni soprattutto i politici di centro destra?

 La questione di fondo è ancora quella dell’equilibrio istituzionale: alla magistratura i costituenti hanno consegnato un potere eccessivo in quanto  preoccupati, anche a ragione, di tutelare la Repubblica da ritorni autoritari all’indomani della caduta del fascismo. Però scrivere una costituzione dopo un’esperienza così traumatica – il ventennio, la guerra mondiale, la guerra civile – non è psicologicamente la situazione ottimale. I costituenti vanno compresi. Ma son trascorsi sessant’anni e certi scompensi dovuti alla necessità di tutelare il nuovo ordine democratico non hanno più ragione di esistere: sarebbe doveroso un ripensamento, ma con la partecipazione di tutti, a cui facciano seguito, laddove possibile, larghe intese. Diversamente, se i dirigenti non siano in grado di percepire necessità e metodica del cambiamento, meglio astenersi e attendere tempi migliori. La riforma più urgente è utopica: il ricambio di buona parte del ceto politico cominciando dalle elites di partito o movimento. Un sogno. Ma qualche volta si è anche avverato.


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