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La maledizione del Front Populaire, a Parigi torna lo spettro del 1936

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Una sigla dal richiamo mitico che oggi riunisce gruppi eterogenei, una somma aritmetica. Nell’Europa minacciata dai fascismi, il socialista Blum vinse ma fu travolto dalla storia

La maledizione del Front Populaire, a Parigi torna lo spettro del 1936

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – La conoscenza di un fatto storico è come la visione di un cannocchiale, che si aggiusta guardando, finché a poco a poco la si mette a fuoco. Ecco. Forse l’equivoco è lì: il Fronte popolare del 1936, al contrario di quello di oggi, non fu semplicemente una coalizione elettorale o una unione della Gauche, un “fronte largo” per vincere le elezioni e fermare i fascisti. Fu molto di più: fu qualcosa che politicamente e non solo ebbe un’anima, uno dei rari momenti climaterici della Storia in cui intellettuali e operai , scrittori e Terzo Stato si trovarono, vibrando e amando veementi speranze, fianco a fianco. Un esperimento in cui lo scopo fu addirittura la felicità; e la si volle godere subito, fin rinnegando il primo ministro della Storia, il tempo. Per questa fragile meraviglia, che andava dal rivoluzionario scarlatto al radicale pallidissimo e significava molto più del 58 per cento ottenuto nelle urne, durò poco e fu sconfitto. Anzi peggio, si sfilacciò fino a morire. La destra reazionaria e fascistoide nel 1936 fu fermata ma non annichilita, e seguirono i vergognosi armeggi di Monaco, strisciando riverenze a Hitler e poi la disfatta. E Vichy.

Attenzione dunque alla sventura di farsi schiavi di parole che dopo ottanta anni conservano un fascino evocativo. Possono diventare parole trappola che polarizzano, ma per un attimo, passioni e pensieri segreti ma che bisogna evitare per andare avanti. Non è alla storia vera del fronte che fa ricorso il nuovo fronte della quinta repubblica ma alla sua evocazione immaginaria, al suo mito. Un mito di scatti fotografici, sequenze di cinegiornale che portano la firma dei reporter di quelle giornate travolgenti, Cartier Bresson, Capa, Doisneau: le feste di popolo, la vasta lobbia e i baffi da buon zio di Blum, le occupazioni gioiose della grande banlieue operaia di Parigi, gli “esodi” estivi in bicicletta per le prime vacanze pagate, le prime due donne entrate nel governo quando ancora la metà del cielo francese, le Marianne, non aveva diritto di voto.

Di questi ingredienti si concimò il 1936 francese che fu intitolato Fronte popolare. Che fu molto di più delle effimere ciarline da studenti del Sessantotto. Quasi una rivoluzione vera. Tutto magnifico, trascinante ma breve. A uccidere il Fronte, in appena due anni, furono la inflazione, la svalutazione, la vergogna di Clichy dove la truppa sparò contro gli operai che lo avevano portato al governo, le risse interne alla coalizione, la guerra di Spagna. La sconfitta della Repubblica fu anche colpa della ignavia pusillanime del Fronte. I comunisti su ordine di Stalin esigevano l’intervento diretto mentre i socialisti praticavano tutte le platitudes della prudenza e sguizzavano con risposte vaghe sul rischio di una guerra mondiale: che sull’Ebro si combatteva già. E si potrebbe giocare a rimpiattino con le somiglianze e le differenze rispetto al che fare oggi in Ucraina.

Un Paese è la trasposizione traslucida che un popolo fa di sé stesso e che fa accettare agli altri. La formano le forze inconsce e le visioni che ne nascono. Tutto ciò che sta in mezzo, la vita di tutti i giorni si potrebbe dire, è qualcosa che spesso la contraddice. Ancor più vero per la Francia, abilissima a dissimularsi dietro la memoria e la negazione ostinata del presente. Quella che andò al voto nel 1936 e quella macroniana, che oggi sceglie nel bollore degli avvenimenti, non si assomigliano. Quella apparteneva a un mondo scomparso dove una rabbia, una emozione come il rischio di un golpe di destra o lo sdegno contro i cani grossi della plutocrazia erano subito atto pubblico; ma non come somma aritmetica e eterogenea di individui, ma fondersi di gruppi. Era la Gauche perché si apparteneva a strutture, i sindacati, i partiti, in cui c’era disciplina collettiva. Il Fronte di oggi è una scienza di espedienti, una accozzaglia volenterosa dove fingono di orzeggiare i seguaci del Presidente e il detestato Melenchon, in un panorama politico per struttura provvisorio, incerto, dove si può essere nel sindacato e votare Bardella per rabbia e delusione. Oggi i manager votano socialista, gli impiegati e metà degli operai scelgono Marine Le Pen. Nel 1936 tutto era chiaro e distinto.

Ciò che rende la destra così temibile per i suoi avversari non è la sua popolarità, le pasquinate che scassinano ogni regola, è purtroppo la sua “necessità”. Se stasera Marine Le Pen e la sua stirpe sparissero miracolosamente, non si può sperare che scompaiano le ragioni politiche e sociali che l’hanno creata e moltiplicata, né che tutto tornerà nel serraglio politico e sociale, all’ordine o almeno al consueto disordine dove stormeggiano i soliti ricchi ed arruffoni.

Questo “fascismo” gallicano è ben diverso dalla destra stile Action Française degli anni Trenta, quella delle Croix de Feu e dei Camelot di Roi che sognavano addirittura la Restaurazione contro la République bastarda e dreyfusarda, che andava in strada con i bastoni e le canne acuminate e voleva, ben inquadrata, assaltare l’Assemblea nazionale. Specchio di un paese in declino demografico economico politico morale. In mano ad affaristi, bravaccioni e parolai, è la Francia dello scandalo Stavisky, un immigrato, piccolo truffatore che ha fatto carriera nel demi monde dell’affarismo politico. Lo trovano morto nel 1934 in uno chalet di Chamonix. Suicidio, delitto per chiudere la bocca? La destra si scatena: contro “la dittatura dei politicanti e dei massoni”. Esige: “la Francia ai francesi!”. Ci sono ancora le rassicuranti colonie ma è un motto che non passerà di moda. Il sei febbraio 1934 è la giornata decisiva. Le colonne delle Destre si dirigono verso il Palais Bourbon, barricate e autobus incendiati sui Grand Boulevard. La maggior parte dei manifestanti non sogna governi di salute pubblica, vuole semplicemente agguantare i deputati traditori e buttarli nella Senna. Poi si vedrà. Sul ponte della Concorde la polizia spara, si contano i morti. E’ il caos, in alcuni quartieri fascisti nazionalisti e comunisti si uniscono per lanciare sassi contro la polizia, in altri i comunisti sfilano al grido “il fascismo non passerà”.

Il Fronte nasce dalle scariche di indignazione di quel giorno, ma ci vollero due anni perché si formasse, non sei giorni come oggi. Due anni di adunate sfilate cortei rassemblement pugni levati, l’Internationale e la Carmagnole a squarciagola. E la statua di Jeanne d’Arc, simbolo della destra, che Thorez e Blum coprono di lillà. Mentre gli altri gridano al ritorno delle “pétroleuses” comunarde e alla fine del mondo.

E’ la società civile, sono gli operai che hanno imposto ai partiti reticenti il Fronte nel ‘36, sono gli scioperi: spontanei incalzanti contagiosi irresistibili. Apre a maggio la Breguet di Havre. Poi: sciopero nelle fabbriche aeronautiche di Issy les Moulinaux, sciopero alla Lavallette di Saint-Ouen, alla Hotchkiss a Levallois… A Billancourt, la Renault, è di più. E’ l’occupazione.

«Tutto è possibile!» proclama Pivert, un gauchiste del partito socialista. Blum, che sta formando il governo, è più saggio: «È ora che inizia il difficile». Ogni volta è così.


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