Quantcast
Channel: Politica – infosannio
Viewing all articles
Browse latest Browse all 4194

Salvini, la mina vagante nel governo

$
0
0

Chi sbanda di più è il leader della Lega. Ne semina una al giorno, su qualunque terreno. E sul caso Netanyahu manda in frantumi la coalizione

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Se la crisi delle democrazie liberali non ci avesse già abituato al peggio, un governo che in tempi di guerra parla due o tre lingue diverse dovrebbe andarsene a casa di corsa. In questi due anni le destre al potere hanno spesso litigato e volentieri sfasciato, nelle politiche economiche e in quelle sociali, nelle politiche migratorie e in quelle istituzionali. Ma almeno sulla politica estera la barra del timone era rimasta sufficientemente salda, sia pure su una rotta più prossima al Modello Polacco che non al Canone Occidentale: una bassa intensità di europeismo, accompagnata da un’altissima quantità di atlantismo.

Ma da prima dell’estate la coalizione ha perso la bussola anche su questo versante, che misura più di ogni altro la maturità e la responsabilità di una classe dirigente. Sta sbandando Giorgia Meloni, che gioca ormai troppi ruoli in commedia. A luglio, dopo averla a lungo perseguita, rinuncia alla svolta moderata e vota no alla rielezione di Von der Leyen.

Nel frattempo, dopo il compromettente bacio in fronte di nonno Biden in uscita dalla Casa Bianca, si ricopre sullo zio Trump in entrata grazie al suo alter ego digitale, “l’amico Musk”, al quale proprio lei, pasionaria sovranista, dà facoltà di bastonare da oltreoceano i magistrati tricolore.

Adesso, mentre ricuce al centro su Ursula con i Popolari e i Socialisti europei incassando la sospirata nomina di Fitto, vola in Argentina e da novella Evita Melón si affaccia dal balcone della Casa Rosada a fianco di Javier Milei, dopo aver siglato con quel loco del presidente anarco-liberista che ha già licenziato 50 mila dipendenti pubblici il “Patto della motosega”, cioè la “Santa alleanza dei Paesi conservatori in lotta per l’identità, la libertà e la sovranità dell’Occidente”. Siamo alla sublimazione del polimorfismo meloniano. Ma non può durare troppo a lungo. La rivoluzione trumpiana produce entropia ovunque, ma è forza centripeta che tende a risucchiare tutto a destra.

Chi sbanda di più è però Salvini, ridotto ormai a mina vagante. Ne semina una al giorno, su qualunque terreno. In politica estera, dalla vittoria del 25 settembre 2022 le sortite del capo leghista si erano limitate a qualche battuta nostalgica da dolce vita all’Hotel Metropol e a qualche estemporaneo mal di pancia sulle armi da spedire a Zelensky. Ma adesso la farsetta tardo-putinista degenera.

Sul caso Netanyahu, la posizione salviniana manda in frantumi la coalizione. Il ministro degli Esteri dice che l’esecutivo non condivide il mandato di arresto nei confronti del premier israeliano ma rispetta il verdetto dei giudici dell’Aia. Il ministro della Difesa va oltre e avverte che l’Italia, riconoscendo la legittimità della Corte penale, sarebbe obbligata a far scattare le manette. Poi arriva lui, il ministro dei Temporali, ed è subito diluvio universale: se Netanyahu venisse nel Belpaese «sarebbe il benvenuto», con tanti saluti al buon senso e alla ragion di Stato.

Piuttosto che rispettare il diritto internazionale, Salvini preferisce seguire il pifferaio magico dei Patrioti trumpisti, quel Viktor Orbán che invita Bibi ad andare in Ungheria, sfida quel poco che resta della giurisdizione Ue e sancisce una volta di più il devastante cupio dissolvi europeo. L’ennesima “salvinata” scopre il fianco di una coalizione confusa e contusa. E la Sorella d’Italia, da palazzo Chigi, ci mette la solita pezza cerchiobottista, come sempre peggiore del buco.

Ma è proprio sull’Europa che la linea del Carroccio è ancora più divisiva ed eversiva. Mercoledì 27 novembre, nella seduta plenaria del Parlamento di Strasburgo, i deputati leghisti non voteranno la nuova Commissione Von der Leyen: «Non siamo la stampella di nessuno», dicono.

Più che un paradosso, uno scandalo. Dopo gli sforzi della premier per risparmiare all’Italia una figuraccia planetaria, dopo gli appelli alle opposizioni perché dicano sì al nostro candidato alla vicepresidenza, è il secondo partito della maggioranza a sfilarsi e a votare no. Un gesto di rottura clamoroso, che in un Paese normale sarebbe più che sufficiente ad aprire una crisi.

Sono questi i custodi del famoso “interesse nazionale”, incapaci di svestire il cencio dei populisti anti-sistema e di indossare il laticlavio delle istituzioni repubblicane? È questo “l’amor di Patria” del vicepremier, che se lo gioca a dadi mentre accusa «zecche rosse» e «giudici comunisti» di volerlo in galera solo perché lui ha «difeso i confini dell’Italia»?

È il dramma di queste destre nazionaliste e sfasciste, che sconfessano la Carta fondamentale del 1948 e confondono il partito con lo Stato. Valeva ieri per Forza Italia, quando il Cavaliere chiedeva al Paese di “costituzionalizzare”, introiettandola, la sua anomalia. Vale oggi per Fratelli d’Italia e per la stessa Lega, che vive la sua ora più buia e spinge il suo leader a un movimentismo esasperato ed esasperante.

L’Autonomia differenziata fatta a pezzi dalla Consulta, le sfide nelle amministrative perse malamente, l’Apocalisse quotidiana nei trasporti: più incassa batoste, più Salvini alza i toni e la posta, rinviando a data da destinarsi la resa dei conti interna al partito, ma avvicinando ogni giorno di più quella interna alla maggioranza. Il filibustering della Lega è sistematico. Sulla manovra senza un euro rilancia l’allargamento della Flat tax, sulle Regioni insiste con il terzo mandato per Zaia.

La mina vaga, in cerca di carica esplosiva. Dopo aver trasformato la Lega in partito nazionale sollevandolo dal 3% della segreteria Maroni del 2013 al 17,4 delle politiche del 2018, il Capitano ha dissipato il suo enorme capitale politico. Tra lo storico 34% delle europee 2019 e il magro 8,8 delle politiche 2022, il Carroccio ha perso la bellezza di 7 milioni di voti. Le ultime regionali sono state un bagno di sangue.

In Liguria è crollata dal 17,1% del 2020 all’8,5. In Umbria ha perso la sua governatrice, Donatella Tesei, lasciando sul campo 20 punti percentuali. In Emilia-Romagna, dove solo nel 2020 aveva quasi superato il Pd con il 31,9%, è schiantato a poco più del 5. L’anno prossimo Meloni ha già prenotato il candidato presidente del Veneto, e difficilmente farà toccare palla ai padani in Toscana, Marche, Campania, Puglia e Val d’Aosta.

Alla fine in politica contano i rapporti di forza, e la lezione di Gramsci non vale solo a sinistra, dove il Movimento 5 Stelle di Conte — che in cinque anni di voti ne ha persi addirittura 8 milioni — deve rassegnarsi all’idea di fare il junior partner del Pd. Pesa anche a destra, dove le camicie nere stanno cannibalizzando le camicie verdi, ormai confinate nella vecchia ridotta bossiana del Nord.

Ma proprio per questo l’Underdog non dorme sonni tranquilli. Deve continuare a mangiarsi Matteo, nei tre anni che mancano alla fine della legislatura. Ma senza costringerlo a farsi esplodere. Il compito è arduo: un Papeete è per sempre.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 4194

Trending Articles