Questa sentenza dimostra quanto poco “rossa” tutto sommato sia questa Procura della repubblica già additata come “nemica della nazione”

(di Carlo Bonini – repubblica.it) – Diciamola così: il fracasso è magno, il fatto è semplice. Posto di fronte all’alternativa se considerare il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, per giunta avvocato, capace o meno di distinguere una notizia coperta da segreto d’ufficio da una di pubblico dominio, e dunque condannarlo o assolverlo per averla resa pubblica, il tribunale di Roma ha concluso che il Paese e i parlamentari dell’opposizione (che di quella notizia, politicamente manipolata, furono vittime in una pubblica bastonatura organizzata da FdI nell’aula di Montecitorio) non meritassero la grottesca conclusione di una sentenza che dichiarasse acclarata la rivelazione del segreto di ufficio, salvo assolverla perché “a insaputa del suo autore”. E questo nonostante il fatto che la tesi del “reato impossibile” fosse stata con convinzione sostenuta oltre che dall’interessato anche dalla pubblica accusa. Sia nella fase delle indagini preliminari (al termine della quale aveva chiesto l’archiviazione del procedimento), che al dibattimento (dove si era pronunciata per l’assoluzione per “assenza dell’elemento soggettivo del reato”).
È un’ottima notizia. Perché questa sentenza non solo riconcilia il diritto con i fatti e la logica, non solo non offende il buon senso e la decenza, ma dimostra quanto poco “rossa” tutto sommato sia questa Procura della repubblica già additata come “nemica della nazione” dalla presidente del consiglio per aver applicato la legge nel caso Almasri. E come la dialettica processuale e più in generale la fatica del giudicare seguano percorsi più raffinati della rozzezza ideologica con cui la destra è abituata a leggerli da un quarto di secolo, ormai. E il servizio pubblico a farsene oggi megafono (è una novità sconosciuta al giornalismo televisivo dell’Italia repubblicana l’annuncio, come avvenuto ieri a Rainews, di una sentenza di assoluzione non solo prima che venga pronunciata e a camera di consiglio in corso, ma addirittura senza che sia mai stata anche solo concepita).
Si capisce dunque il perché della reazione tarantolata di Andrea Delmastro. E il compulsivo uso di esclamativi affidati a una sgangherata nota postata su Facebook in cui il nostro, evidentemente trasecolato nell’aver scoperto che diffondere una notizia coperta da segreto di ufficio è un reato, si è abbandonato a una raffazzonata e consunta collezione di luoghi comuni sulla giustizia. “Sentenza politica” (!), “ci deve essere un giudice a Berlino” (!), “ora una giustizia diversa” (!), “Se pensano che il Pd sia intoccabile si sbagliano” (!), “Se pensano di fermarmi hanno sbagliato indirizzo” (!). E si capisce anche la ragione — perché l’appartenenza tribale e la cultura politica e istituzionale sono le stesse — per la quale la presidente del consiglio Giorgia Meloni sia uscita dall’afasia in cui si era volontariamente ibernata in queste settimane fuggendo il confronto parlamentare come la peste su una questione cruciale come lo spionaggio di giornalisti e attivisti politici con uno spyware in dotazione agli apparati della nostra sicurezza nazionale, per dirsi improvvisamente “sconcertata”. Per confessare che mentre la faccenda Paragon non le ha suscitato alcun moto verbale, su Delmastro proprio non si può tacere. A maggior ragione per far sapere quello che tutti per altro già sapevano. Che “Delmastro resta al suo posto”.
Non avevamo dubbi. Perché in questi due anni e mezzo abbiamo imparato che la cultura della responsabilità politica (non quella penale che è materia appunto dei tribunali) non figura nella cassetta degli attrezzi di questa destra. E tantomeno il senso della misura e della vergogna. A maggior ragione in chi, come Delmastro e Meloni, negli anni in cui erano opposizione faceva del proprio giustizialismo politico un modo d’essere. Solo chi ignora l’una (la responsabilità) e le altre (il senso della misura e della vergogna) può infatti pensare che possa restare al suo posto anche soltanto un minuto di più un sottosegretario alla giustizia che, delle due l’una: o è colpevole del reato per il quale è stato condannato ieri o è tal punto digiuno delle più elementari cognizioni dovute al suo ruolo (l’obbligo di proteggere notizie ottenute o apprese in ragione del suo ufficio) che non merita di ricoprirlo per manifesta inadeguatezza.